Energia e strategia

Perché il mondo non riesce a fare a meno del petrolio

di Eugenio Occorsio   25 luglio 2022

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Guerra in Ucraina, pandemia, inflazione: il prezzo scende, ma resta troppo alto. Biden fallisce la missione in Arabia Saudita. E la transizione green si allontana

Venerdì 15 luglio, mentre Joe Biden salutava, all’ingresso del palazzo Al Salam di Gedda, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman con il “fist bump”, il pugnetto reso celebre dal Covid, le quotazioni del petrolio scendevano a 95 dollari al barile, esattamente il livello del 23 febbraio, vigilia dell’aggressione russa all’Ucraina. Biden era lì per convincere il regno di Saul ad aumentare la produzione di petrolio di almeno 750mila barili al giorno, arrivando a 11 milioni, e il paradosso è solo apparente tant’è vero che nei giorni successivi le quotazioni hanno ricominciato a salire. Il petrolio rimane un problema, anche più del gas perché riguarda davvero tutti (Europa compresa).

 

È vero che ha oscillato fra 95 e 130 dollari al barile nelle settimane della guerra alternando bruschi picchi e ripide cadute dovute al rallentamento dell’economia globale a partire dalla Cina (dove il fattore guerra non c’entra nulla ma l’economia è ferma per i continui esasperanti lockdown), però anche quella fra i 95 e i 100 dollari è una quotazione ritenuta troppo alta dai mercati, dai governi e dai consumatori occidentali (si pensi al prezzo della benzina). Il petrolio valeva 80 dollari all’inizio dell’anno, 65 all’inizio del 2021, 41 nell’horribilis 2020 (con punte nell’ “intraday” addirittura sottozero nei momenti più duri del Covid), 64 nel 2019.

 

Per trovare quotazioni superiori ai 100 dollari occorre tornare al 2012 «quando però le condizioni mondiali erano ben migliori, Cina e Stati Uniti andavano a mille e si stava addirittura tentando di portare la Russia nell’arengo dell’economia di mercato», ricorda Daniel Yergin, uno storico dell’energia che al petrolio dedicò nel 2008 un libro (“The prize: the epic quest for oil, money and power”) che vinse il premio Pulitzer per la saggistica. «La crisi energetica attuale - spiega Yergin, che ora è vicepresidente di Standard & Poor’s, in un articolo su Project Syndicate - è cominciata prima della guerra ed è peggiore perfino di quella degli anni ’70 perché ora si combina con le quotazioni impazzite del gas, addirittura con il caro-carbone dovuto all’inaspettato revival di questa fonte, oltre che con le conseguenze dirette della pandemia: la frantumazione della globalizzazione, i problemi dello shipping, i ritardi nell’adeguamento delle infrastrutture dei Paesi produttori, dal Brasile ad alcuni arabi, dovuti appunto ai problemi economici legati al Covid».

 

Guardando il quadro complessivo si spiega meglio la missione di Biden, così importante per l’amministrazione democratica da far superare l’imbarazzo (e le contestazioni) per la drammatica vicenda di Jamal Khashoggi, l’editorialista del Washington Post ucciso il 2 ottobre 2018 nel consolato saudita di Istanbul con ogni probabilità dagli emissari del principe MbS. Una tragedia che aveva fatto proclamare già in campagna elettorale a Biden: «Metteremo l’Arabia Saudita fuori dalla comunità internazionale». Le cose sono andate molto diversamente. L’America produce sì ormai oltre 11 milioni di barili al giorno (un livello che aveva indotto Obama ad allentare la presenza in molti Paesi arabi) ma ne consuma 20, mentre i consumi interni sauditi non raggiungono i 4 milioni di barili su una produzione simile. La missione è stata un mezzo fallimento perché tutto quello che ha ottenuto è che la questione verrà discussa nel meeting ordinario dell’Opec di agosto. Ma è stata la conferma - se ce n’era bisogno - che l’“oro nero” continua ad essere una variabile decisiva negli equilibri mondiali, funzione dai rapporti politici più ancora che il gas.

 

Il mondo intero ha bisogno del petrolio, è così da oltre un secolo. Winston Churchill, giovane capo della marina britannica, riconvertì nel 1914 l’alimentazione delle navi da carbone a petrolio rendendole più veloci e autonome tanto da vincere la prima guerra mondiale. Impadronirsi del petrolio di Baku, Azerbaijan, oltre che di quello del Caucaso, fu il principale obiettivo dell’attacco tedesco contro l’Unione Sovietica del 21 giugno 1941. Mussolini mirava ai giacimenti albanesi e libici. Il Giappone aveva messo le mani nel 1931 sulla Manciuria, regione ricca non tanto di petrolio quanto di scisti bituminosi (gli stessi da cui il Canada estrae petrolio dalle sabbie dell’Alberta) e all’inizio del 1942 durante l’offensiva sull’Indonesia si impadronì dei giacimenti della Royal Dutch Shell.

 

E poi il salto di qualità: il 6 ottobre 1973 scoppiò la guerra del Kippur, il quarto conflitto arabo-israeliano. Per rifarsi dalle sconfitte precedenti (e che per ritorsione verso un mai precisato ma disatteso impegno americano a non armare Israele) i Paesi arabi - guidati del potente sceicco Zaki Yamani, ministro saudita del petrolio e capo dell’Opec - decretarono un embargo totale del petrolio contro l’occidente. In pochi mesi il valore passò da 3 a 12 dollari. La crisi pose fine al ciclo di sviluppo economico che aveva caratterizzato gli anni ’50 e ’60. L’austerity cambiò le vite di tutti noi, l’industria per la prima volta si trovò costretta ad affrontare il problema del risparmio energetico e il petrolio divenne ufficialmente la più micidiale arma politica globale: in suo nome vennero poi combattute rivoluzioni (Iran 1979 e Libia 2011), invasioni (Kuwait 1990), sanguinose scissioni locali (Sudan 1999-2011), ancora guerre (Iraq 2003-2011), per non parlare del Donbass che è ricco di risorse minerarie, causa non ultima del conflitto in corso.

 

Il petrolio è talmente importante nello scacchiere mondiale che intorno ad esso imperversa una speculazione finanziaria tale da rendere ancora più complicata l’interpretazione dei fatti. «La finanza è entrata prepotentemente nel mondo del petrolio», commenta Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. «Facciamo un esempio. Guardiamo alle alle quotazioni dei futures sul greggio al Nymex (New York Mercantile Exchange), il principale mercato mondiale per la finanza sui prodotti energetici: bene, se oggi sono sui livelli che sappiamo, poco sotto i 100 dollari al barile, i futures di dicembre quotano 87,55 dollari, cioè prefigurano un ulteriore vistoso calo del valore. Fin qui potremmo starci: la questione diventa meno credibile quando si vanno a vedere i futures ad agosto 2023 che sono quotati 78,92 dollari. Poi a dicembre sempre dell’anno prossimo scendono a 77 dollari, per poi piombare a 73,58 nell’agosto 2024, a 72,06 nel gennaio 2025 e poi via via più giù fino a 64,26 nel febbraio 2028, a 63,15 nel maggio 2030, e via dicendo. Quale affidabilità hanno verosimilmente quotazioni del genere? Se fossi un trader correrei a comprarmi un future al 2030 pagandolo con uno sconto del 40% sulle quotazioni attuali. Poi, quando al 2030 saremo arrivati e dovrò rivendermi il future, vedremo: secondo me è impensabile che per allora il petrolio sia sceso così tanto. La guerra per allora sarà finita, vorrei ben sperare, e così la recessione mondiale, un po’ d’inflazione ci sarà pur stata e la domanda si sarà ripresa, insomma il petrolio in quella data lontana costerà probabilmente ben di più di quanto i futures indicano». La finanziarizzazione esasperata distorce insomma i meccanismi del mercato.

 

Il fatto è che da 40 anni la domanda petrolifera continua a crescere del 2-3% l’anno (oggi il mercato mondiale è sui cento milioni di barili). Il 97% dei trasporti (automobili, camion, pullman) va ancora con i derivati dal petrolio, e questi rappresentano un quarto del mercato totale dell’energia. Una spinta al ribasso del prezzo del greggio, non così ampia come indicherebbero i future ma comunque visibile, dovevano darla le politiche “green”. Ma anche qui le cose stanno andando in un’altra direzione. «L’Europa ma più in generale tutta la comunità internazionale si erano impegnate su un percorso di progressiva decarbonizzazione che avrebbe portato a una riduzione del consumo di greggio», dice l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, che è stato anche Commissario europeo e oggi presiede l’Istituto affari internazionali. «La guerra in Ucraina, con le sue conseguenze su prezzi e disponibilità delle fonti fossili, ha rimesso in discussione obiettivi e scadenze della transizione energetica. La priorità è quella di riuscire a risolvere un “trilemma”: conciliare la transizione energetica con la sicurezza energetica e con prezzi che ci consentano di mantenere le aspettative di crescita delle nostre economie. In un simile contesto appare più che verosimile che il greggio (e ancora di più il gas) continuerà ancora per molti anni ad essere una fonte irrinunciabile».

 

La guerra ha sconvolto le previsioni al punto di imporre la riapertura delle centrali a carbone per fronteggiare le carenze di forniture russe. Nessuno scommette più che i tempi della transizione ecologica (che avrebbe come obiettivo “zero emissioni” nel 2050) verranno rispettati. Senonché la transizione riguarda essenzialmente l’Europa, con l’America di fatto, anche se sono passati i niet di Trump, riottosa ad unirsi. Secondo l’ultimo rapporto del Global Carbon Project l’Europa è responsabile dell’emissione di 2,9 Gigatonnellate di CO2 (una Gigatonnellata è 1 miliardo di tonnellate), pari al 9,6% delle emissioni globali e in netto calo rispetto alle 3,5 Gt del 2017. Di questo passo, la riduzione sarebbe rimarchevole, solo che dall’altro 90,4% del mondo le notizie sono tutt’altro che confortanti: la Cina ha detto che per lei prima del 2060 di “net zero” non si parla, e l’America procede senza soluzione di continuità, tant’è vero che l’uomo più potente del mondo è andato a casa del “demonio” per chiedere aiuto.