Decine di milioni di persone ogni anno si aggiungono al numero di chi non riesce a nutrirsi. Eppure l’allarme delle Nazioni Unite non riesce a scalfire l’indifferenza globale

Le cifre fanno paura e salgono in modo esponenziale: 828 milioni di persone, il 10% della popolazione mondiale - più degli abitanti di Stati Uniti e Unione europea sommati - soffrivano la fame alla fine del 2021: 46 milioni in più dalla fine del 2020 e 150 milioni dallo scoppio della pandemia.

 

Quando si tireranno le somme del 2022, il calcolo, che emerge da un rapporto appena coordinato dalla Fao e realizzato insieme con altre agenzie dell’Onu (Oms, Unicef, Wfp e Ifad), sarà aggiornato in modo altrettanto straziante: la guerra in Ucraina mette a rischio 323 milioni di persone che dalle forniture alimentari dai due Paesi dipendono, e si aggiunge alla siccità, all’inflazione, alle carestie e alle ondate di calore che rendono questo l’anno più caldo e più secco di tutti i tempi. Per non parlare del Covid che è tutt’altro che scomparso. La Banca Mondiale calcola che 100 milioni si aggiungeranno nel 2022 al numero delle persone «in povertà estrema».

 

Sarà, dopo il 2020, il secondo anno peggiore della storia. Non è finita: la Fao aggiunge che  2,3 miliardi di persone (29,3%) sono in «insicurezza alimentare moderata o grave», 350 milioni in più rispetto allo scoppio della pandemia. La cifra sale ancora a 3,1 miliardi, sempre secondo la Fao, se si considerano coloro che «non possono permettersi una dieta sana ed equilibrata» in conseguenza dell’inflazione sui prodotti alimentari, anch’essa dovuta alle ripercussioni economiche del Covid, in aumento di 112 milioni rispetto al 2019. Sempre nei due anni e mezzo di pandemia, la Fao stima che 45 milioni di bambini sotto i 5 anni abbiano sofferto di deperimento da carenza cronica di nutrienti essenziali nell’alimentazione, il che in età infantile e in ambiente ostile aumenta 12 volte il rischio di morte. Inoltre, 149 milioni di bambini di meno di cinque anni hanno subito un ritardo di crescita e di sviluppo.

© WFP/Gabriela Vivacqua

Sono le quattro “C” dell’infamia, dice David Beasley, direttore esecutivo del World Food Programme: «Cost, Covid, Conflicts, Climate. Tutte insieme, una congiunzione di sciagure quale mai si era abbattuta sull’umanità, hanno creato la crisi attuale». Eppure, neanche tanto tempo fa sembrava imboccata la via dell’eliminazione della fame. Fra il 2005 e il 2014 le persone denutrite erano scese del 30% da 806 a 572 milioni. «La soluzione sembrava a portata di mano, al punto che in un summit del 2015 fu fissato il 2030 come data per questo risultato, straordinario ma allora realistico», spiega Maurizio Martina, vice direttore generale della Fao. «Invece le cose sono andate tutte nel verso sbagliato. Il cambiamento climatico ha portato conseguenze sempre più devastanti, ai tanti conflitti locali si è aggiunta la guerra in Ucraina, l’inflazione ha reso prodotti come grano e fertilizzanti semplicemente irraggiungibili per enormi fasce di umanità». Secondo le previsioni aggiornate, nel 2030 quasi 670 milioni di persone (l’8% della popolazione) soffriranno ancora la fame, dato simile al 2015. Quindici anni che dovevano essere risolutivi e che invece andranno sprecati.

 

La Fao, nata nel 1945 insieme all’Onu, funge da agenzia di coordinamento per monitorare e intervenire nelle situazioni a rischio. Il Wfp «è il braccio operativo, che interviene nelle zone più sventurate per salvare vite e portare aiuti materiali», dice Beasley. «Dei nostri 21mila effettivi, il 90% è dislocato sul campo in 120 Paesi».

 

È un lavoro durissimo: «Ci troviamo a volte costretti - racconta Beasley - a scelte tremende, come togliere cibo a chi ha fame per darlo a chi di fame sta morendo: stiamo passando dalla difficoltà di accesso al cibo perché i prezzi sono inavvicinabili al rischio di indisponibilità vera e propria». Non è teoria: è successo a Sri Lanka, Haiti, Burkina Faso, Afghanistan, Indonesia. «Cinquanta milioni di persone - avverte Beasley - sono sull’orlo della carestia in 45 Paesi». Conferma Martina: «Se esiste un problema di accesso al cibo per via degli alti prezzi, l’anno prossimo rischiamo un problema di disponibilità per via del cambio climatico. Tutti i modelli agricoli del mondo sono chiamati a un cambiamento epocale e le agricolture più fragili dei Paesi in via di sviluppo sono ancora una volta la frontiera più esposta». 

 

Per avere un’idea della tragedia, prendiamo la Somalia (posizione 192 su 193 ex aequo con la Sierra Leone nella classifica 2021 del Fondo Monetario con 314 dollari di Pil pro capite su 11.100 di media globale): 7 milioni di abitanti (metà della popolazione) sono in stato di insicurezza alimentare grave secondo il Wfp, 1,5 milioni di bambini sotto i 5 anni soffrono di malnutrizione acuta, 386mila di loro grave. Nella zona controllata con metodi mafiosi dai jihadisti di Al-Shabaab, 800mila persone sopravvivono senza possibilità di uscita in un territorio arido e improduttivo, in cui neanche l’Onu riesce a entrare. Tutti rischiano la vita senza cure urgenti e cibo. Da quattro stagioni delle piogge non cade una goccia, la peggior siccità da quarant’anni, peggiore di quella che nel 2011 costò la vita a 250mila persone.

 

Il Paese per colmo di sventura dipende al 100% dal grano russo/ucraino: per il 70% dall’Ucraina e per il 30% dalla Russia. Trenta Paesi africani hanno una dipendenza superiore al 50% dalle forniture dei due belligeranti. L’Egitto dipende dai due Paesi per l’80% del fabbisogno alimentare (20% Ucraina, 60% Russia), il Sudan per il 75%, il Congo (dove il 22 febbraio 2021 l’ambasciatore Luca Attanasio fu ucciso mentre andava a visitare un campo del Wfp) per il 70%, e poi il Senegal al 68%, la Tanzania al 66, il Madagascar al 65 e così via. «È un dramma nel dramma della guerra, una catastrofe sopra un’altra catastrofe», riprende il direttore Wfp, Beasley, che ha ritirato nel dicembre 2020 il Nobel per la pace assegnato all’agenzia. Non solo il grano ucraino viene spedito via Mar Nero ma anche quello russo, a sua volta quasi fermo per la tensione internazionale (anche se le sanzioni non vietano a Mosca l’export alimentare) e per la complicazione nei finanziamenti al commercio e nelle assicurazioni navali. Quel poco di cereali che la Russia esporta viene veicolato via terra verso la Bielorussa e i Paesi amici dell’Asia centrale.

 

Ma al di là della provenienza, il problema è che il grano è venduto a prezzi di mercato, del 56% più alti di un anno fa. Il G7 ha annunciato un’apposita linea di credito da 4,5 miliardi per aiutare i Paesi più poveri ad acquistare il grano e a investire nella loro agricoltura, ma non basteranno. «Intanto il nostro lavoro sul campo in Ucraina va avanti», racconta Martina. «Ora siamo concentrati nella realizzazione di strutture per lo stoccaggio dei prossimi raccolti. Abbiamo lanciato una gara internazionale per questo con l’obiettivo di fornire una capacità di stoccaggio di almeno 4 milioni di tonnellate di cereali, il 25% del deficit stimato». Non è finita: «C’è poi da considerare l’impatto che l’aumento del prezzo dei fertilizzanti sta avendo sulla sicurezza alimentare globale, altrettanto devastante». 

 

Non solo Ucraina. I conflitti spazzano ogni angolo del mondo, dall’Afghanistan dove metà della popolazione vive in condizioni di indigenza, fino all’Ecuador colpito da un’ondata di cicloni e siccità alternate. Ma la situazione più grave resta nell’Africa sub-sahariana, dove la sofferenza va al di là della fame. La Fao analizza parametri come la “low birthweight”, i bambini che nascono con un’altezza insufficiente rispetto alle medie del loro ceppo etnico, problema che interessa il 15% dei neonati nelle aree a rischio, 21 milioni. Sale al 22% (150 milioni) lo “stunting”, la condizione di essere troppo bassi lungo lo sviluppo. E meno della metà (43,8% ovvero 59,4 milioni) sono allattati al seno, il che in zone particolarmente difficili attribuisce una provvidenziale difesa immunitaria.

 

Non tutto succede per le bizzarrie della natura e neanche per le guerre. Andrea Boitani, un economista della Cattolica, ha scritto un libro, “L’illusione liberista” (Laterza) che documenta come nel recente passato molti economisti abbiano avallato le spaventose disuguaglianze che hanno aggravato la situazione: «Il mondo cresce e prima o poi la povertà si elimina, quante volte lo abbiamo sentito dire?», accusa. «Oppure la trickle-down economy: lasciate che i ricchi diventino sempre più ricchi e poi qualcosa “sgocciolerà” (trickle-down) anche per i poveri. Ancora: ci hanno raccontato che la globalizzazione ha fatto bene perché milioni di persone sono uscite dalla povertà assoluta. Vero, ma ne ha lasciate altrettante se non di più a rischio: sono in parte usciti dalla fame ma le condizioni sanitarie sono tali per cui al minimo stormir di fronde cadono di nuovo in una condizione disperante». Riflette amaramente Boitani. «L’atteggiamento negazionista sulle sofferenze di tanta gente è diffuso, basta guardare all’ottusa opposizione a una più ampia diffusione dei vaccini contro il Covid. Il risultato è che, come documenta l’Oxfam, per la prima volta dagli anni ’90 peggiora non solo lo standard medio di vita ma gli investimenti nelle zone più povere e oltretutto più esposte ai cambiamenti climatici». Un mondo abbandonato, oltre che affamato.