In fuga dal Donbass coi russi alle porte. Ma c’è chi decide di restare: «Meglio morire a casa mia»

Sul fronte, tra chi scappa sotto i colpi dell’artiglieria e chi decide di non abbandonare la propria terra. Ma l’ingresso delle truppe di Mosca è imminente: «Chi non se ne va questa settimana non se ne va più»

L’artiglieria russa martella senza sosta da giorni e non c’è condominio la cui facciata non presenti almeno una scia di schegge. Mentre fuori le esplosioni si fanno sempre più serrate i furgoncini intenti nell’evacuazione dei civili sfrecciano tra i prefabbricati sovietici: andare sotto ai 100 chilometri orari è troppo pericoloso, «si rischia di essere tracciati», spiegano i volontari dell’Ong Refugease, due americani e un ragazzo del posto. Nonostante le buche, quindi, bisogna tenere il piede sull’acceleratore e quando le esplosioni si fanno troppo vicine il tunnel sotto ai binari della ferrovia offre l’unico riparo. Qualche autista ha portato delle sedie e accampati lì sotto si aspettano le pause tra una raffica e l’altra per correre verso i palazzi da cui arrivano le richieste di assistenza.

 

I primi a chiedere di essere portati via sono Olga e Volodya, una coppia di pensionati il cui condominio è finito troppo vicino alla linea del fronte. Le esplosioni hanno distrutto i muri della cucina e i due vivono da giorni tappando i buchi con delle coperte. L’uomo si prende cura della moglie, afflitta da long-covid da mesi e l’assiste da giorni chino su un materasso piazzato sul pavimento dell’ingresso, unica stanza senza finestre e quindi lontana dalle schegge. Mentre la coppia sale sul mezzo, una vicina si affaccia e guarda in cagnesco, «lei rimane e aspetta i russi» spiegano i due senza particolare tono di giudizio: «Noi invece abbiamo una figlia a Berlino, ci sta aspettando a Kiev e ci porterà lei in Germania. Per noi è tempo di dire addio al Donbass, vogliamo vivere in pace e lontano da Putin».

 

© Alfredo Bosco

Secondo l’amministrazione locale, a Bakhmut degli oltre 70 mila abitanti sono rimasti, trincerati in casa, circa cinquemila, un mix tra chi aspetta i russi e chi invece ha deciso di abbandonarsi al destino, qualsiasi esso sia. Secondo i volontari, questi infatti sono gli ultimi giorni in cui i pulmini riusciranno ad entrare in città, «chi non se ne va questa settimana non se ne va più», spiegano.

 

L’ingresso delle truppe russe in città è imminente, il loro avamposto è piantato a due chilometri dal centro su viale Patrice Lumumba che dai tempi dell’Urss ancora porta ancora il nome del leader congolese. Stando al comando ucraino, i russi hanno già tentato un’incursione notturna dal viale periferico e le mostrine rinvenute sui cadaveri hanno svelato che per tentare lo sfondamento finale sono arrivati i temuti mercenari della Wagner.

© Alfredo Bosco

Il secondo punto Gps della giornata segna l’appartamento di “Zia Lidia”, 92 anni, tutti spesi a Bakhmut. Ad aspettarli sotto casa il nipote in lacrime, «questa donna ha visto anche i nazisti sotto casa, è sopravvissuta a qualsiasi cosa, ma ora è troppo vecchia non può farcela in queste condizioni, portatela via», spiega l’uomo che però non ha nessuna intenzione di andarsene: «Andare dove? A Leopoli dove quelli come me li odiano? No, io rimango a casa mia, nel Donbass», racconta mentre incastra un vecchio telefono cellulare tra le mani incrociate della signora: «Quando sarà in salvo, vi prego, qualcuno mi chiami, il mio numero è l’unico in rubrica, non potete sbagliare».

Mentre l’anziana viene trasportata giù dai quattro piani di scale su una barella di tela qualcuno apre la porta del proprio appartamento e fissa le operazioni con sguardo torvo, dietro alle porte si intravedono appartamenti adibiti a bunker, cosparsi di sacchi di sabbia, scorte d’acqua e altre bottiglie di diverso genere. Nelle camere buie uomini, donne e bambini che per convinzione o per disperazione hanno deciso di restare.

In Donbass c’è chi parte, chi non se ne vuole andare e poi c’è addirittura chi torna. Nonostante Kiev abbia ordinato l’evacuazione generale di civili dalla regione di Donetsk, i treni, che dovrebbero portare in salvo gli abitanti delle cittadine finite sotto il fuoco dell’artiglieria incrociata, partono carichi di profughi diretti ovest ma tornano con qualche carrozza piena di passeggeri. Tra questi c’è Marina, 72 anni di cui 16 spesi a lavorare come inserviente al comune di Konstantinovka. Lo scorso marzo, quando la donna è fuggita con la sorella disabile verso ovest, le truppe di Mosca erano molto più lontane dalla sua città di quanto lo siano ora ma, contrariamente alla richiesta di evacuazione generale, Marina ha deciso di tornare a casa e di riportare la sorella a prendersi cura del suo roseto, attività che l’istituto di salute mentale di Konstantinovka ha prescritto come terapia contro il suo male degenerativo. «Perché torno? non di certo perché amo i russi, anzi...», mettere in chiaro la donna: «Ho dormito due mesi in un centro d’accoglienza su un materasso poggiato a terra, in condizioni misere. Ho 68 anni e mia sorella è disabile mentale, non voglio finire la mia vita da senzatetto, piuttosto meglio morire a casa mia».

© Alfredo Bosco

Per chi resta, però, la coabitazione con i soldati diventa sempre più difficile, dopo che il governo ha espressamente chiesto ai civili di andarsene, infatti, chiunque rimanga è guardato con sospetto: «Che cosa ci facciano ancora qua io non lo so, anzi non ci voglio pensare se no mi vengono brutti pensieri», spiega uno dei volontari del battaglione ucraino acquartierato dentro Bakhmut, un ragazzo di Moukatchevo, città della Transcarpazia che il linea d’aria è più vicina a Milano che a Donetsk. «Mi rivolgo direttamente a voi abitanti della regione di Donetsk, andate via per la vostra incolumità», sottolinea durante la sua conferenza settimanale Iryna Vereshchuk, ministro per la Reintegrazione dei territori temporaneamente occupati dell’Ucraina dopo aver presentato i dati: 3.908 persone evacuate di cui 767 bambini tra il 3 e l’11 agosto, ne rimangono, stando alle stime 200 mila, di cui 50 mila minori.

A termine della conferenza stampa arriva però anche un altro annuncio: «Il Parlamento ucraino è già al lavoro su due nuove bozze di legge, una contro i reati di collaborazione con il nemico nei territori occupati, l’altro per arginare il fenomeno della passaportizzazione», spiega Vereshchuk: «Qualsiasi attività economica volontaria svolta in accordo con le autorità occupanti potrà essere punita con 5 anni di reclusione. Chiunque occupi un incarico pubblico e decida di prendere la cittadinanza russa sarà punibile con 15 anni di reclusione ed il sequestro dei beni».

 

Il ministero ha prodotto anche locandine esplicative affisse davanti a tutti i palazzi comunali della regione in cui si illustra chiaramente che «l’evacuazione è obbligatoria ma non forzata» e che «chiunque decida di non partire dovrà prendersi la responsabilità della sua scelta». Tra le conseguenze indicate nel messaggio alla popolazione ce n’è una però su cui è difficile girare intorno: Kiev non garantisce l’approvvigionamento energetico poiché i russi hanno fatto saltare le linee, bisognerà quindi affrontare l’inverno senza riscaldamento.

 

«Il freddo mi spaventa più dei russi», spiega Olga: «I russi già nel 2014 li abbiamo visti arrivare e poi scappare, i nostri ragazzi li cacceranno anche questa volta, ma alla mia età col freddo non si scherza», racconta mentre i volontari cercano spazio per le sue borse in quella che è l’ultima tappa della giornata.

 

L’infermiera 59enne fino a due mesi fa viveva a Popasna ma le autorità locali le consigliarono di spostarsi a Bakhmut «per stare più al sicuro» e invece ora Olga è di nuovo in fuga, di fretta, e sotto le bombe.

 

Il rendez vous per tutti i furgoni dell’evacuazione è alla stazione di Pokrovsk al confine tra la regione di Donetsk e quella di Dnipro ed al riparo dall’artiglieria russa. Lì decine di autobus, furgoni e minibus scaricano gli sfollati raccolti da Bakhmut, Chasiv Yar, Soledar, Torestsk e dall’isolata Siversk: le città dilaniate dalla linea del fronte. Una funzionaria del ministero smista la folla sui vagoni, «diventa sempre più difficile», confessa: «Chi aveva amici a ovest li ha raggiunti da mesi, chi aveva una macchina o disponibilità economica, un mestiere o un educazione, è partito, ora sono giorni che arrivano solo emarginati, anziani, bambini soli o disabili, gente a cui non è rimasto nulla».

 

Un uomo cammina lungo i binari, ha portato una gabbia con dentro i suoi due pappagalli: «Gli ho sempre promesso che un giorno li avrei portati a fare un viaggio», ironizza ma senza sorriso, mentre procede di  fianco a una gruppo di giovanissimi ebrei ortodossi. Loro hanno creato una piccola catena umana per caricare tre dozzine di pacchi in cui hanno arrotolato tutta la loro vita. Mentre sulla banchina continua a sfilare la processione degli ultimi del Donbass, al bar della stazione i soldati ascoltano il bollettino della giornata letto dal presidente. Le preoccupazioni sulla centrale nucleare di Zaporizhzhya dominano il discorso, il recente attacco su una base russa in Crimea invece «ha galvanizzato il fronte sud» e presto «potrebbe esserci una controffensiva». Sul Donbass poche parole: «Laggiù i russi martellano le nostre posizioni, la situazione è molto difficile». 

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