Medio Oriente in fiamme

«Qui a Gaza non abbiamo più neanche acqua potabile: beviamo quella di mare»

di Chiara Sgreccia   17 novembre 2023

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 Khan Yunis

Soldati israeliani dentro l'ospedale di Al Shifa. Almeno altri 20 quelli fuori uso. Morti lungo le strade. Migliaia di persone stipate al Sud della Striscia, dove continuano i bombardamenti. «Il silenzio è molto più assordante delle esplosioni», scriveva Vittorio Arrigoni. Ecco le testimonianze di chi è dentro la Striscia

«Visitando l’ospedale di Al Shifa, il principale di Gaza City, abbiamo visto dei corpi distesi nel cortile, alcuni in attesa di cure, la maggior parte degni di sepoltura. Decine di civili. Avete presente Gaza? Ogni casa è arroccata sull’altra, ciascun edificio è posato sull’altro. È il posto a più alta densità abitativa al mondo, per cui se bombardi a 10 mila metri di altezza è inevitabile che tu faccia una strage di civili. Ne sei cosciente e colpevole, non si tratta di errore, di danni collaterali». Così scriveva Vittorio Arrigoni, l’unico italiano nella Striscia il 27 dicembre 2008, quando Israele ha lanciato l’operazione “Piombo fuso” con l’intento di «colpire duramente Hamas». Durante le tre settimane dell’operazione sono stati uccisi 1.285 palestinesi, tra cui 895 civili: 80 bambini, 111 donne.

 

«Hanno bombardato 15 palazzi, fatto più di 60 vittime. Mia moglie ha perso sei nipoti. Un vero massacro», racconta oggi Sami Abu Omar, coordinatore del Centro italiano di scambio culturale “Vik”, dedicato, appunto, all’attivista per i diritti umani Vittorio Arrigoni. È lunedì mattina, la sua voce è stanca e provata: i bombardamenti a Khan Yunis sono stati il giorno precedente, anche se la città si trova a Sud, non così distante dal valico di Rafah. Abu Omar parla lentamente dal cellulare che ricarica dall’automobile accesa – «faccio lo stesso con il router per Internet» – solo qualche minuto, per far durare il più possibile il carburante rimasto. Racconta che l’aria puzza di fritto, «di pollo e patatine. Perché chi finisce il gasolio mette nei mezzi l’olio di semi». E che manca tutto: «In 40 giorni sono arrivati gli stessi aiuti che entravano in due giorni. Vanno per la maggior parte agli sfollati nei rifugi dell’Unrwa. Per chi ha ancora una casa in cui vivere resta pochissimo. I soldi non servono perché nei negozi non c’è niente. Ieri ho fatto la fila dalle 10 alle 16 per 1,5 chilogrammi di pane per la mia famiglia, siamo in 30».

 

Sono migliaia i palestinesi che ogni giorno arrivano al Sud: «Quasi un milione e 700 mila le persone stipate nell’area meridionale della Striscia, senza abbastanza spazio né beni per sopravvivere. Non c’è neanche l’acqua potabile. Per fermare la sete beviamo tutto», spiega Abu Omar. Anche l’acqua dei pozzi agricoli. O del mare, come ha fatto chi ha attraversato la Striscia a piedi dal Nord, non più sotto il controllo di Hamas secondo le autorità israeliane.

 

«Chi rimarrà fino alla fine racconterà la storia. Abbiamo fatto quello che potevamo, ricordatevi di noi», si legge sulla lavagna di uno dei tanti ospedali in cui i medici sono sommersi dai pazienti. «Di fronte all’ingresso ci sono molti cadaveri, anche pazienti feriti, ma non possiamo farli entrare», raccontava un chirurgo di Msf dall’ospedale di Al Shifa che Israele considera la copertura di una base di Hamas, fuori uso già da prima che l'Idf avviasse un operazione militare all'interno della struttura, alla ricerca dei «terroristi».

 

«La situazione è grave, inumana», riferiva il medico. «Come in almeno altri 20 ospedali della Striscia», aggiunge Abu Omar: «Ci sono i morti per le strade perché nessuno può passare per seppellirli». 12 mila le vittime dal 7 ottobre. Secondo il ministero della Salute, più di 4.500 sono bambini, più di tremila donne.

 

«Faranno il silenzio e lo chiameranno pace. Il silenzio del “mondo civile” è molto più assordante delle esplosioni che ricoprono la città come un sudario di terrore e morte. Restiamo Umani», scriveva Arrigoni nel 2008 dal suo appartamento a Gaza.