«C’è chi mi ha criticato perché dopo l’attacco non ho chiamato tutti gli ebrei che conosco per scusarmi. Ma perché avrei dovuto farlo? Anche noi siamo stati bombardati. Nessun israeliano mi ha telefonato per scusarsi e non avrebbe dovuto farlo». Parla Najla Said, attivista e figlia del grande intellettuale Edward Said

«Noi, palestinesi che viviamo all'estero, siamo visti come terroristi. Ma che c'entriamo con Hamas?»

«È la prima volta che mi capita di vivere in un clima come questo, con una rabbia così intensa. Mi sembra di non appartenere più al Paese in cui sono nata». Lo sconcerto che fa salire le lacrime agli occhi di Najla Said è lo stesso che provano i 250 mila palestinesi che come lei vivono negli Stati Uniti. Perenni forestieri in una terra che li ha accolti, che ha dato loro lavoro, che ha visto nascere e crescere i loro figli. Ma che dallo scorso 7 ottobre ha ripreso a scrutarli con sospetto.

 

«Nonostante abbia ripetuto più volte che l’attentato di Hamas è stato orribile, la gente si sente a disagio con me. È assurdo perché qui a New York sono circondata da amici ebrei. Ho sempre desiderato pace, umanità, coesistenza». Chi l’accusa di appoggiare le milizie, ci dice, non bada alla sua storia. Men che meno alla straordinaria eredità culturale di suo padre, Edward Said, uno degli intellettuali più influenti del secolo scorso e pioniere dei postcolonial studies, scomparso esattamente vent’anni fa. Alla questione palestinese, Said consacrò l’intera vita, fatalmente “Out of place” come il titolo del suo magnifico memoir (“Sempre nel posto sbagliato”, Feltrinelli 2000). Una condizione costituzionale che appartiene anche a Najla, attrice, autrice teatrale e attivista.

 

Nel sottotitolo della sua autobiografia (“Looking for Palestine”, Penguin 2013) si definisce «confusa, in una famiglia arabo-americana» che come tante altre lasciò il Medio Oriente per trasferirsi in America. Un Paese che vi ha dato nuove opportunità ma che è “incondizionatamente” alleato di Israele. È difficile trovare un equilibrio?
«Lo è sempre stato, ora però ancora di più. Gli Stati Uniti non hanno mai avuto come priorità i nostri interessi, tant’è che un candidato pro-Palestina non potrebbe mai essere eletto come presidente. Da quando Hamas ha attaccato Israele, le cose sono peggiorate. Persone che prima frequentavano casa mia, ora credono che tutti i palestinesi vogliano uccidere gli ebrei. C’è chi fa screenshot dei miei post e poi li condivide con i vicini di casa ebrei, decontestualizzandoli».

 

In Usa cresce l’odio sia verso i palestinesi sia verso gli ebrei. L’allarme hate-crime è altissimo.
«Veniamo accusati di essere dalla parte dei terroristi solo perché soffriamo per il nostro popolo. Ci sono ipocrisia e razzismo, la nostra sicurezza è a rischio. Il livello non era così alto neanche dopo l’11 settembre. C’è chi mi ha criticato perché dopo l’attacco non ho chiamato tutti gli ebrei che conosco per scusarmi. Ma perché avrei dovuto farlo? Cosa c’entro io con Hamas? Anche noi siamo stati bombardati. Nessun israeliano mi ha telefonato per scusarsi e non avrebbe dovuto farlo».

 

La governatrice di New York ha definito «moralmente ripugnante» una protesta in favore dei palestinesi. Perché?
«Quando sentono “Palestina Libera”, molti pensano che si stia inneggiando alla distruzione di Israele. Non è vero. È il desiderio di avere uno Stato libero, dove ognuno abbia uguali diritti. Non vogliamo che Israele rimanga come è ora, certo, ma non vogliamo sbarazzarcene. È quasi impossibile per noi riferirci a un qualsiasi tipo di autodeterminazione senza essere visti come terroristi o amici dei terroristi».

 

Najla Said

 

Durante il faccia a faccia con il premier israeliano Netanyahu, il presidente Biden ha detto: «Non fate gli errori che abbiamo fatto noi dopo l’11 settembre». Lo ha apprezzato?
«È una buona cosa. Non è giusto invadere una nazione, massacrare un popolo per catturare, forse, gli esponenti di un gruppo terroristico. L’America l’ha fatto in Iraq e Afghanistan, Israele lo sta facendo con noi. Detto questo, sono molto critica sulla posizione della sinistra. Usiamo l’espressione “Pep”, progressisti eccetto che per i palestinesi. Difendono giustamente i diritti calpestati degli afroamericani, ma non riescono a capire che lo stesso capita a noi».

 

Il suo libro è un manifesto per gli arabi di seconda generazione impegnati a confrontarsi con la loro identità. Come ha vissuto la sua?
«Mio padre nacque americano in Palestina, perché mio nonno visse un periodo negli Usa. Mia madre era libanese, veniva da una famiglia di intellettuali. La nonna era insegnante e attivista, il nonno un quacchero umanista: fu questo movimento a rendere famosa l’espressione “dire la verità al potere”, a cui si è rifatto mio padre. Mamma aveva una forte coscienza araba, papà è stato molto influenzato dalla sua famiglia. Da ragazzina, da una parte ero a disagio perché non mi riconoscevo in nessuno a scuola, dall’altra ero riconoscente perché circondata da intellettuali arabi, che pensavano a come migliorare il mondo».

 

Questo background è anche il soggetto del suo lavoro teatrale.
«Ne ho scritto nel monologo “Palestina” da cui è scaturito il memoir. È andato in scena nel 2010 a Off Broadway. Nei miei reading e a teatro mostro chi sono e cosa penso. Rispetto a mio padre, il mio lavoro è molto più emotivo e aperto; non è intellettuale, parlo semplicemente come me stessa. Ho voluto trasmettere le sue idee per come le avevo apprese».

 

A vent’anni dalla morte, cosa le piace ricordare di suo padre?
«Una delle cose che mi ha insegnato è di non perdere mai la capacità di usare la forza della persuasione. A mio padre piaceva che le persone mettessero in discussione il suo pensiero, amava che ognuno avesse la propria idea. Per lui era importante confrontarsi, per quanto fosse a volte doloroso mettersi nei panni degli altri».

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