Libertà negate
Amnesty International: «I diritti nel mondo sono sotto attacco»
Per Riccardo Noury è a rischio soprattutto la libertà di manifestare. Dall’Iran a Israele, dal Sud America al Nord Africa, le proteste vengono represse nel sangue
«I diritti nel mondo sono sotto attacco», ci dice Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International di cui fa parte dal 1980. Un osservatore attento e puntuale su una tendenza che mette a rischio i valori fondamentali della democrazia. Il rapporto appena pubblicato sul biennio 2022-2023 lo conferma.
In che modo vengono attaccati?
«Quest’anno ricorrono i 75 anni della dichiarazione dei Diritti umani. Sono passati quasi inosservati. Il principale era il diritto alla protesta. Nel 2022 ce ne sono state in 87 Paesi. All’inizio pacifiche, sono poi scivolate nella violenza. E in quasi tutte è stata usata una forza eccessiva per reprimerle. Questo si traduce nel restringere sempre più ampi spazi di libertà. Si sopprimono perché producono richieste di cambiamenti. Guardiamo cosa è successo in Israele e cosa sta accadendo in questi giorni in Francia. È preoccupante».
Debolezza dei governi o rinuncia al confronto?
«Negli ultimi 15 anni ci sono stati due momenti chiave per capire l’attuale crisi. Nel 2010 con l’avvio delle occupy, le primavere arabe, le tendopoli allestite in tutto il mondo. Avevano le stesse parole d’ordine: libertà, fine della corruzione, soprattutto riconquista della dignità. Quindi, il gelo. Fino al 2018 le persone erano convinte di potersi esprimere con un click o un like. Nel 2019 scatta la scintilla di cui non conosciamo l’origine. Il mondo intero, di colpo, ha capito che per ottenere delle conquiste bisognava impegnarsi. Con la testa e con il cuore. Milioni di persone sono scese in piazza chiedendo libertà e cambiamenti. Pensiamo a Hong Kong, al Cile, alla Colombia».
La crisi del voto, si è persa fiducia nella democrazia?
«È entrata in crisi la rappresentazione più che la democrazia. Si è parlato poco dell’Algeria. È nato un movimento, l’Hirak, che è riuscito a dare una spallata a una parvenza di potere gestita da una persona espressione dei militari. Un movimento imponente che ha trascinato mezzo Paese per le strade. Lo Stato ha reagito con una repressione feroce».
Per paura?
«Per paura del cambiamento. Le persone hanno capito che dovevano mobilitarsi perché nei Palazzi non trovavano una sponda. L’Iran è esemplare. Ha vissuto e vive una rivolta nuova. Non sono più le donne che si ribellano a 44 anni di discriminazione. La novità sono gli uomini che le affiancano nelle proteste. Questo terrorizza il potere. Le autorità hanno rinunciato alla mediazione. Sparano sulle folle per fare più male possibile. Non c’è dialogo, confronto. Si uccide. Con tattiche che abbiamo visto adottare sempre più spesso dal 2019: proiettili di gomma all’altezza degli occhi per gli uomini e agli organi genitali per le donne, fino alle granate usate in Iraq».
Stessa tendenza con la criminalità? Il Salvador sembra diventato una prigione.
«Per combattere la violenza diffusa assistiamo alla normalizzazione dello stato di emergenza. Quando verrà abrogato, i codici ordinari saranno così intrisi di norme illiberali che nessuno ci farà più caso. Il caso Bukele, presidente del Salvador, ha tutte le premesse per diventare il vero emblema del 2022. L’1,5 per cento della popolazione è in carcere, 132 detenuti sono morti sotto tortura. Meno diritti e più sicurezza».
Ma Bukele ha enorme consenso.
«Deve però tenere in carcere per tutta la vita chi arresta perché quando esce è più infuriato di prima; crea delle zone franche e altre totalmente impoverite. Molte delle persone finite dentro, magari solo per un tatuaggio al polso, erano quelle che davano da mangiare alle famiglie che ora si trovano senza più sostegno».
Pugno duro anche con i migranti. Frustati o deportati, bruciati nei centri, morti in mare…
«L’approccio è diverso. È più sottile. Dopo i muri si usano i Paesi di partenza come dighe umane».
Accade con il Messico.
«Non dimentichiamoci che questa pratica è iniziata con l’Australia. Per fronteggiare l’ondata migratoria si sono pagate la Papua Nuova Guinea e l’isola di Nauru. In Europa si è applicata con la Turchia nel 2016 e l’Italia con la Libia nel 2017. Stessa cosa accade nelle Americhe. È il gioco delle palline da ping pong. Da Nord a Sud. Tra Usa e Canada è stato aggiunto un protocollo su un accordo vecchio di 15 anni. Accolto soltanto chi arriva da un Paese sicuro. E il Canada considera tale solo gli Usa. Tutti gli altri trovano un muro e vengono spediti indietro. Dagli Usa tornano in Messico che a sua volta li respinge fino ai Paesi del Triangolo della morte e poi ancora in Venezuela o ad Haiti. La strategia è chiara: respingere e logorare. Lo vediamo nei Balcani».
Ma l’emergenza resta. Perché è un fenomeno epocale.
«Non c’è nulla di nuovo in questa strategia. Spostare progressivamente le frontiere meridionali e orientali nei Paesi di partenza è una vecchia tesi. Oggi è applicata in modo più spregiudicato. L’Italia coopera con gruppi di persone che gestiscono pezzetti di territorio in Libia. È gente che a più riprese è stata denunciata per crimini contro l’umanità e che è sotto indagine da parte della Corte penale internazionale. Collaboriamo con dei criminali per frenare il flusso migratorio. Lo dice l’Onu, non Amnesty».
A quale prezzo?
«A qualsiasi prezzo. Aiutare un Paese come la Tunisia perché rischia il default in cambio di un blocco delle partenze fa parte della cooperazione. Può sembrare un accordo cinico ma ci può stare. L’errore è non rimuovere le cause che spingono le persone a fuggire: l’odio razzista instillato da chi governa nei confronti delle popolazioni subsahariane. Se non affronti questa verità non risolvi il problema. Non fai altro che dare soldi a un sistema che alimenta ciò per cui stai finanziando».