Kiev colpisce obiettivi strategici russi per dimostrare al nemico che non è al sicuro. Mentre Mosca risponde con rappresaglie e bombarda le infrastrutture del grano

«Sostegno all’Ucraina fino alla fine e per tutto il tempo necessario», sentiamo ripetere da un anno e mezzo nelle alte sedi istituzionali. Ma se la fine non arrivasse presto e se il tempo necessario fosse molto più del previsto? Tale ragionamento è insidioso per due motivi fondamentali. In primis, perché la guerra in Ucraina ci ha ormai abituato a colpi di scena eclatanti e fare previsioni è diventato più un esercizio divinatorio che una speculazione intellettuale. Il secondo motivo è legato alla polarizzazione che il conflitto ha assunto nell’opinione pubblica internazionale: trovare un punto d’incontro tra i due Stati al momento sembra impossibile.

 

Il presidente russo Vladimir Putin ha volutamente trasformato la guerra in uno «scontro di civiltà» (come lui stesso l’ha definito) contro l’Occidente e perciò una risoluzione diplomatica non appare affatto vicina. Nonostante al vertice di Gedda, in Arabia Saudita, abbiano partecipato anche Cina, Turchia e Brasile, tre Paesi che in questo momento sono, ognuno in modo diverso, molto vicini al Cremlino. A ciò si aggiunga che ogni volta che si parla di stallo, di congelamento delle ostilità o, addirittura, di fallimento militare della controffensiva ucraina, ci si pone su un terreno pericoloso.

 

Del resto, non possiamo fingere di non aver parlato per mesi della grande manovra che avrebbe dovuto risolvere la situazione. «Dobbiamo riconquistare la maggior parte dei territori occupati da Mosca per dimostrare che militarmente la Russia non ha speranze di vincere», aveva dichiarato il consigliere del presidente Volodymyr Zelensky, Andriy Yermak. «Non ci si può sedere a un tavolo negoziale senza rafforzare la nostra posizione», gli aveva fatto eco il ministro della Difesa, Oleksiy Reznikov. Ad accompagnare tali dichiarazioni c’erano i proclami occidentali e l’invio massiccio di armi, mezzi e rifornimenti. Oltre 400 milioni di dollari nel solo mese di aprile. Gli Usa, in particolare, si sono decisi a dare «a significant boost», una spinta importante alle capacità offensive di Kiev con i mezzi corazzati Bradley e nuovi lotti di munizioni per i lanciarazzi Himars.

 

La controffensiva, però, non partiva. Due mesi d’attesa e ancora niente. Finché, a giugno, l’Ucraina ha annunciato l’inizio delle operazioni. Prematuramente, secondo alcuni esperti militari, forse a causa della pressione occidentale. Sono trascorse settimane da allora e sul campo non è cambiato quasi nulla; tanto da obbligare Zelensky a dichiarare: «Dobbiamo essere pazienti, se vogliamo vincere; la controffensiva è complicata e potrebbe essere più lenta del previsto».

 

Un grande ostacolo è senz’altro la linea di fortificazioni ideata e voluta dal precedente comandante delle truppe d’occupazione russe, Sergej Surovikin, attualmente (sembra) finito in disgrazia per essere stato troppo vicino alla Wagner. La viceministra della Difesa ucraina, Hanna Maliar, annuncia quasi quotidianamente «avanzate in direzione di Bakhmut», ma i conti sui chilometri riconquistati da Kiev nell’Est non tornano. Nel Sud, a Zaporizhzhia, la fanteria non sfonda. Troppe mine, troppi campi agricoli pianeggianti che non offrono ripari e rendono i soldati facili bersagli dell’artiglieria nemica.

 

Si noti che quando gli Stati Uniti si sono resi conto che le cose non stavano andando come previsto si sono affrettati a inviare bombe a grappolo in Ucraina. «Saranno usate per i campi minati», assicuravano da Washington. Ma sappiamo bene di che tipo di arma si tratta e quanti sfaceli abbia prodotto nella storia. Qualche generale Usa allora ha iniziato a dichiarare che «la vittoria dell’Ucraina non arriverà entro l’anno». Ma allora quando? Difficile dirlo, nessuno si sbilancia più.

 

Per ora, in mancanza di evoluzioni sul campo, Mosca continua a bombardare le infrastrutture del grano ucraine sia sul mare sia sul Danubio. Nel Mar Nero, Kiev sta seminando il panico tra i marinai russi colpendo in rapida successione navi militari, petroliere, la sede della flotta, i porti continentali della Federazione. Intanto i droni ucraini sorvolano la Russia diretti ai grattacieli della capitale nemica. Questa strategia, dicono gli analisti, serve ad allargare il conflitto, a dimostrare alla controparte che le sue strutture e la sua popolazione non sono al sicuro.

 

«È un modo per sviare l’attenzione dal fallimento della controffensiva», dicono dal Cremlino. In realtà, si tratta di messaggi chiari: anche se non stiamo riconquistando terreno, possiamo farvi male dove vi sentite più sicuri e continuare a rendervi ridicoli dimostrando che non siete in grado di proteggere neanche le vostre navi ammiraglie o la vostra città simbolo. In un certo senso è una strategia intimidatoria che mira a convincere la Russia a considerare l’Ucraina pericolosa anche fuori dal campo di battaglia (dove ha già dimostrato il suo valore) e a spingere i vertici russi a cedere.

Finora, però, la reazione del Cremlino è sempre stata la stessa: rappresaglia. Invece di migliorare le difese patrie, colpire più insistentemente, persino nel cuore del finora incolume centro storico di Odessa, che dell’espansionismo zarista verso Occidente nell’800 fu il fiore all’occhiello. Dunque, la dimensione non è solo spaziale, ma diventa tragicamente temporale: la guerra in Ucraina si allunga, coinvolge nuovi terreni di scontro. Mentre la cancrena che ogni conflitto apre nelle società si nutre di nuove morti e di ulteriore devastazione.