Ambiente a rischio

Trivellare gli abissi è la nuova corsa all’oro

di Vincenzo Giardina   18 agosto 2023

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La ricerca di coltan, litio e cobalto in nome della transizione verde incontra a Kingston le resistenze degli ecologisti e della politica meno ossequiosa agli interessi delle multinazionali. Ma non per molto

Caccia alle terre rare sul fondo degli oceani. Oltre le piattaforme continentali, in acque internazionali, superando o bypassando le resistenze dell’Onu. Nonostante la vicenda del Titan, il sommergibile imploso a giugno negli abissi del Nord Atlantico, e soprattutto i moniti degli esperti impegnati nella tutela dell’ambiente e degli ecosistemi marini. Il confronto, su quella che potrebbe rivelarsi una corsa all’oro del XXI secolo, con coltan, litio e cobalto al posto delle pepite nel nome della transizione verde, è passato dalla capitale giamaicana Kingston. Tre settimane di negoziati nella sede dell’Autorità internazionale dei fondali marini (Isa), un organismo Onu con 168 Stati membri, per decidere se e come autorizzare le trivelle negli abissi. Trivelle, bulldozer o mega-aspiratori, come quello progettato da una società con base in Canada e sostenitori tra alcuni piccoli Stati insulari del Pacifico.

 

Ma andiamo con ordine. A Kingston, a fine luglio, non c’è stato il liberi tutti. Sulle regole quadro, Rules, regulations and procedures, Rrp nell’acronimo inglese, presupposto per concessioni minerarie in acque internazionali, bisognerà lavorare ancora nel 2024 e poi nel 2025. Il risultato immediato, che non è la fine della corsa, è stato il crollo dei titoli di The Metals Company: in pochi minuti, il 24 luglio, sul listino tecnologico Nasdaq, le azioni della società canadese hanno perso oltre il 20 per cento del loro valore. «Siamo delusi per la mancata approvazione, ci speravamo da due anni», il commento a caldo del ceo Gerard Barron. «Constatiamo però che la grande maggioranza degli Stati sta lavorando sodo, impegnandosi per un via libera al codice minerario», ha proseguito. Barron si dice convinto che all’Isa se ne riparlerà. E il problema, per chi mette al primo posto la tutela degli ecosistemi marini, è che potrebbe avere ragione. «La partita non è affatto chiusa», conferma a L’Espresso Matthew Gianni, cofondatore della rete Deep sea conservation coalition, a Kingston per i negoziati, che segue puntualmente da un decennio. «L’Autorità ha affermato che intende continuare a elaborare le regole per lo sfruttamento minerario “con la prospettiva” di adottarle durante la trentesima sessione in programma nel 2025», riferisce l’esperto. «Va però detto che non è stato assunto alcun impegno vincolante; ed è stato riconosciuto che le concessioni presuppongono un quadro normativo già in vigore, comprensivo delle royalty che una società o un governo deve alla comunità internazionale: solo così è infatti possibile distribuire risorse ai Paesi membri dell’Isa e creare un ispettorato che monitori la regolarità delle attività estrattive».

 

E il mega-aspirapolvere? The Metals Company vorrebbe utilizzarlo a quasi 4mila metri di profondità per risucchiare noduli polimetallici grandi come patate, ricchi di rame, cobalto, nichel e altri minerali usati in smartphone, turbine eoliche e batterie di auto elettriche. Il progetto riguarda un’area a circa duemila chilometri a Sud-Ovest della California, nella Zona di frattura di Clipperton, lungo una faglia che è allo stesso tempo cimitero fossile di balene estinte e habitat brulicante di oltre 5mila specie, da anemoni dai tentacoli sottili come fili alle oloturie, cetrioli marini soprannominati «scoiattoli di gomma».

 

I numeri dell’affare stanno in un’inchiesta del New York Times: nell’arco di 25 anni si potrebbe dare energia a 280 milioni di auto elettriche, realizzando guadagni per 31 miliardi di dollari. C’è poi l’aspetto diplomatico. The Metals Company ha il supporto di Nauru, Kiribati e Tonga. La tesi del New York Times è che i loro governi siano stati coinvolti soprattutto in ragione dello statuto dell’Isa: il primo compito dell’organismo è infatti tutelare gli Stati svantaggiati e non gli interessi di società private. Secondo Lord Fusitu’a, deputato di Tonga, quando nel 2014 fu sottoscritto l’accordo con The Metals Company, la società canadese «gioca sporco servendosi di un Paese povero del Pacifico per mettere le mani sulle risorse».

 

Si dice che il diavolo sia nei dettagli. Magari in clausole e postille contrattuali: secondo il New York Times, in cambio del sostegno al progetto, Tonga potrebbe ottenere da The Metals Company appena 2 dollari per tonnellata di minerale estratto, meno dello 0,5 per cento del suo valore.

 

Nota a piè di pagina: le prospezioni dei giacimenti in acque internazionali stanno andando avanti. Finora l’Isa ha accordato 31 concessioni con il sostegno di 14 Paesi, tra i quali Cina, Russia, India, Regno Unito, Francia e Giappone. E ci sono poi le attività minerarie nelle acque territoriali, più vicine alle coste. Per dire: a giugno la Norvegia ha annunciato concessioni su un’area di 280mila chilometri quadrati, estesa dal mar di Groenlandia al mare di Barents.

 

«Quasi tutti i Paesi del G20, dalla Gran Bretagna alla Cina, sono sostenitori del via libera», spiega a L’Espresso Roberto Danovaro, professore di Ecologia presso l’Università politecnica delle Marche. «Ci sono poi gli Stati più cauti, come l’Italia, e i fautori di una moratoria, vale a dire uno stop, sia pur provvisorio, in attesa di maggiori evidenze scientifiche». A chiedere di fermarsi sono già stati 21 governi, dalle Fiji alla Germania, dalla Francia al Brasile, cinque solo nel luglio scorso. Diva Ammon, biologa marina originaria di Trinidad e Tobago, fondatrice del progetto di ricerca e tutela Speseas, sostiene che andrà tutto bene: «Nel mondo c’è un’ondata di resistenza che sta montando».