Una striscia di terra intorno alla quale si concentrano i mercenari di Wagner, l’esercito di Varsavia e gli appetiti russi. E che sta diventando il nuovo fronte caldo della guerra in Ucraina

«Il confine dimenticato». Gli attivisti polacchi che da due anni assistono i migranti che tentano di entrare nel territorio dell’Ue chiamano così la frontiera tra Polonia e Bielorussia. Oggi, invece, quella stessa striscia di terra è diventata una delle aree più osservate d’Europa. Mercenari della Wagner che si ritraggono minacciosi in marcia verso Ovest, il governo polacco che invia migliaia di soldati e mezzi pesanti a presidiare e, a 65 chilometri, l’exclave russa di Kaliningrad, con oltre 200 mila soldati di Mosca. Una polveriera che al momento sembra pronta a esplodere e che potrebbe causare una serie di reazioni a catena incalcolabili.

Dall’inizio della guerra in Ucraina sono riemerse vecchie questioni nell’Est Europa. Una tra tutte, quella dei confini, passati attraverso le vicissitudini ottocentesche, ridefiniti tra le due guerre mondiali e tracciati nella forma attuale alla caduta dell’Unione sovietica.

I nazionalisti ungheresi, polacchi, romeni, per non citare quelli russi e ucraini, hanno iniziato a parlare di «nazione storica», di regioni da riconquistare e torti da riparare. Mosca negli ultimi due anni ci ha abituato a discorsi di questo tipo, non solo a proposito dell’Ucraina, che per il presidente russo sarebbe «un errore storico», ma anche a proposito di Varsavia. Di recente, Vladimir Putin ha definito le regioni occidentali della Polonia come un «regalo di Stalin» e il suo ministro della Difesa, Sergei Shoigu, ha evocato il «piano» polacco per impadronirsi della parte occidentale dell’Ucraina con la scusa del sostegno a Kiev. È un vecchio ritornello in Russia, apparso sui canali Telegram e nei programmi tv fin dal febbraio scorso: la Polonia intende inviare i propri soldati in Ucraina e occupare di fatto le regioni a Ovest di Kiev, trasformando Leopoli nella nuova capitale. «Per questo stanno acquistando armi in grandi quantità dagli Usa, vogliono approntare l’esercito più potente d’Europa ed espandersi», ha dichiarato Shoigu. Un’altra delle giustificazioni propagandistiche che il Cremlino sta usando per l’invasione dell’Ucraina, ma che, si noti bene, in alcuni ambienti riscuote un certo credito.

Inoltre, nonostante l’attenzione dei media sia focalizzata sugli sbarchi nel Mediterraneo, c’è una rotta migratoria aperta dall’agosto del 2021 che dalla Bielorussia e dalla Russia arriva fino al confine orientale polacco. Qui, da due anni, masse di disperati affrontano il freddo della foresta nera di Bialowieza, dove anche d’estate la temperatura può rasentare lo zero, e rischiano la vita tra le violenze dei corpi di guardia da entrambi i lati della frontiera. Nel luglio 2022 il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki, appartenente al partito di estrema destra Diritto e Giustizia, e gli alti funzionari della sicurezza nazionale hanno tenuto una pomposa conferenza stampa presso il confine per annunciare il completamento del «muro».

Ossia 186 chilometri di grate d’acciaio alte fino a sei metri che, nelle intenzioni del governo di Varsavia, avrebbero dovuto «fermare l’invasione utilizzata dal presidente bielorusso, Alexander Lukashenko, come arma per destabilizzare il nostro Paese e l’Unione europea». Sono trascorsi due anni dalle prime tragiche immagini dei corpi dei ragazzi congelati nella foresta, ritrovati senza vestiti (alcuni di quelli che sono riusciti ad arrivare in Germania raccontano che in certi casi le guardie di frontiera li facevano spogliare per punizione, dopo aver sottratto loro i telefoni cellulari necessari per orientarsi con il Gps), e il governo polacco ha ripreso ad accusare Lukashenko di utilizzare i migranti per il suo «piano» di destabilizzazione dell’Occidente. Nessuno sembra preoccuparsi del fatto che a pagare le spese di questa disputa tra Stati siano i migranti; in nome della difesa del «fianco orientale della Nato», tutto passa in secondo piano.

Si dovrebbe anche citare l’impostazione populista e xenofoba del governo di Morawiecki che, come Viktor Orbán in Ungheria, Marine Le Pen in Francia e Matteo Salvini in Italia, ha fatto della «difesa della nazione» un punto fermo della sua azione politica. Ma in questa sede valgono soprattutto le due premesse fatte in apertura che dovrebbero essere sufficienti a capire perché la crisi al confine polacco-bielorusso è tutt’altro che una schermaglia diplomatica. Si aggiunga soltanto che, sul cittadino polacco medio, la retorica antirussa per fare presa non ha bisogno di particolari spinte, in quanto il ricordo degli anni dell’Urss e del movimento Solidarnosc è ancora ben radicato nella popolazione.

Per questo, quando il 29 luglio scorso oltre 100 mercenari della Wagner, di stanza in Bielorussia dopo il tentato (o presunto) golpe in Russia, si sono spostati verso la frontiera, la tensione è salita immediatamente. L’obiettivo dichiarato della compagnia di mercenari era il corridoio di Suwalki, una striscia di terreno sulla quale si incontrano quattro frontiere: Bielorussia, Polonia, Lituania e l’exclave russa di Kaliningrad. Un territorio delicatissimo, in cui un incidente potrebbe causare un disastro. Secondo Morawiecki, da quel momento «la situazione è ancora più pericolosa». Semplice provocazione, si potrebbe obiettare. Se non fosse che il giorno prima anche Lukashenko aveva pubblicamente accusato la Polonia di mirare ad annettersi il territorio occidentale ucraino. E che la Wagner, costretta all’esilio dal territorio russo, d’ora in poi farà base in Bielorussia. Quattro giorni dopo la Polonia ha protestato ufficialmente a causa di alcuni elicotteri di Minsk che avrebbero sconfinato. Lukashenko ha negato, spiegando che si trattava di manovre decise da tempo e delle quali Varsavia era stata informata.

Il 9 agosto il viceministro degli Interni, Maciej Wsik, ha annunciato che la misura era colma e per questo duemila soldati polacchi erano stati destinati al confine con la Bielorussia. Le specifiche sono arrivate il giorno dopo dal ministro della Difesa, Mariusz Blaszczak: innanzitutto si tratterà di 10 mila soldati, di cui «quattromila supporteranno direttamente la guardia di frontiera e seimila saranno nella riserva». Oltre ai numeri, ciò che stupisce è la motivazione: «Spostiamo l’esercito più vicino al confine con la Bielorussia per spaventare l’aggressore, in modo che non osi attaccarci». In altri termini, deterrenza. Lukashenko, a quel punto, ha fatto sapere di aver ordinato al suo governo di «contattare» la controparte per parlare della crisi in atto, aggiungendo: «Siamo vicini e non si scelgono i propri vicini». Varsavia ha parlato di «parole vuote» e ha inviato i carri armati e gli elicotteri d’assalto al confine. Ancora Blaszczak ha chiarito: «Non ho dubbi che le provocazioni di Minsk si ripeteranno, ma l’esercito polacco è preparato a molti scenari diversi e reagirà adeguatamente alla minaccia». Si noti che persino il ministro non ha osato nominare apertamente la parola «guerra».

La Bielorussia non ha reagito, ma è importante ricordare che il confine polacco è il confine della Nato. Ancora prima che la guerra in Ucraina arrivi a una qualsiasi conclusione è su questa frontiera che si costruisce uno dei punti nevralgici dei nuovi equilibri globali.

Una polveriera pronta a esplodere, l’ultima.