L’emergenza
Pierre Vauthier è l’uomo della Fao in zona di guerra, e indica le vie alternative per trasportare e vendere la produzione di cereali. Che in gran parte è destinata ai Paesi africani e asiatici dove più si soffre la fame
di Eugenio Occorsio
C’è un uomo, un francese sui cinquant’anni, che gira infaticabilmente per i campi dell’Ucraina devastati dalla guerra, parla con i contadini disillusi e terrorizzati per convincerli a non mollare. Li aiuta a riprendere il lavoro, a piantare, raccogliere e portare il loro grano al mercato perché in qualche modo riusciranno a venderlo malgrado i russi bombardino le terre, i silos di raccolta, le attrezzature portuali ormai non più solo a Odessa, ma anche negli avamposti sul Danubio attraverso i quali gli ucraini, con la collaborazione dei rumeni che rinunciano a qualsiasi diritto di passaggio, trovano faticosamente vie alternative pur di far giungere il loro prodotto verso Occidente: se non per mare, viene imbarcato sulle grandi chiatte che risalgono lentamente il fiume verso l’Ungheria, l’Austria, la Germania.
«La cosa più difficile è spiegare agli agricoltori che vale ancora la pena coltivare il grano, per poi aiutarli materialmente a ripartire», dice Pierre Vauthier, agro-economista specializzato nel “disaster risk management”, capo della Fao per l’Ucraina e veterano di tante missioni a rischio in Sud Sudan, in Etiopia, in Yemen. «Le case sono bombardate, le terre disseminate di mine e di quant’altro lascia dietro di sé una guerra, dai pezzi di metallo ai residui radioattivi», dice Vauthier. «Per di più i raccolti sono difficili da vendere ed esportare e i coltivatori lo sanno. La produzione sta crollando a danno non solo dell’Ucraina, ma di tutta l’umanità».
I russi non hanno pietà. Hanno disdetto l’accordo per la navigazione del grano sul Mar Nero il 17 luglio, poi hanno cominciato a distruggere le infrastrutture dei porti e ora hanno addirittura chiesto a Recep Tayyip Erdogan, il leader turco che era stato il mediatore per l’intesa dell’anno scorso che aveva riaperto la via dell’export, di instaurare un corridoio alternativo sempre sul mar Nero attraverso cui vendere il loro, di grano, bypassando i porti ucraini. «Il loro grano comprende i grandi quantitativi rubati agli ucraini», accusa Vauthier.
La produzione di cereali nel 2023 sarà inferiore per il 30% alla media degli ultimi cinque anni. Nel 2022 è stata il 27% meno dell’anno prima. Del solo grano, di cui l’Ucraina è il quinto produttore mondiale (è anche il quarto di mais e il terzo di orzo), quest’anno sono stati coltivati non più di 4,1 milioni di ettari contro i 6,1 milioni di prima della guerra. La mietitura è in corso e si concluderà entro metà settembre: come risultato della minore area coltivata non supererà i 18,5 milioni di tonnellate, il 10% meno dell’anno scorso che già era stato un disastro. Compresi gli altri prodotti (orzo, avena, mais, girasole) il raccolto quest’anno si fermerà a 47,8 milioni di tonnellate, il 12% in meno dell’anno scorso, già pesantemente compromesso. Ai tempi d’oro, neanche tanto lontani, la produzione fra cereali e semi oleosi, raggiungeva anche i 100 milioni di tonnellate.
Secondo le stime della Fao, considerando anche i 500 mila ettari persi per l’inondazione derivante dall’esplosione alla diga Nova Kakhovka il 6 giugno, il 36% della popolazione ucraina è in stato di indigenza. «L’operazione più complicata e urgente è lo sminamento di tutti i terreni», conferma Vauthier, che con il suo staff di 250 tecnici ed esperti, fra agronomi e artificieri, lavora in collaborazione con l’esercito di Kiev e la Fondation Suisse de Déminage, una società specializzata. «La prima necessità è un’accurata mappatura dei terreni. Alla Fao abbiamo una sperimentata competenza nell’interpretazione delle mappe satellitari: in questo caso oltre alle caratteristiche di fertilità del terreno, alla presenza di risorse idriche, alla rilevazione di eventuali insidie geologiche, verifichiamo l’esistenza di mine nascoste».
In questi mesi si è sviluppato tutto un sistema di export, certamente più costoso però più sicuro, che ha permesso al 60% dell’export ucraino di raggiungere i mercati via terra: con i camion, le ferrovie e poi le chiatte sul Danubio. Una volta giunto in Europa, viene smistato verso i Paesi africani e asiatici che più ne hanno bisogno con l’aiuto di un’altra agenzia dell’Onu, il World Food Programme, che cura la distribuzione gratuita in tutte le zone in cui ce n’è un disperato bisogno: Egitto, Libano, Sudan, Somalia, Afghanistan e tanti altri Paesi che dipendono dal grano ucraino per il 50-60% del loro fabbisogno. A finanziare il tutto sono l’Onu, i donatori privati ma soprattutto l’Unione Europea, che ha già contribuito con più di un miliardo alle operazioni.
«La via naturale, che va ripristinata al più presto, rimane quella del Mar Nero, attraverso i porti di Odessa e Mykolayiv», puntualizza Vauthier. Oltretutto questa via alternativa conosce, oltre al costante pericolo di sabotaggio russo, anche insidie impreviste: la Polonia ha chiesto a Bruxelles di bloccare il passaggio del grano sul suo territorio perché, a sentire il governo presieduto da Mateusz Morawiecki, si creava una concorrenza sleale verso i produttori nazionali. E anche la Bulgaria cominciava a fare eccezioni. C’è voluta tutta la capacità negoziale della Commissione di Bruxelles, con l’interessamento diretto della presidente Ursula von der Leyen, per convincere Varsavia che quel grano è solo in transito e non sarà mai venduto in territorio polacco. L’Ue ha perfino garantito alla Polonia degli indennizzi in caso di violazione delle regole.
«Tutto è più complicato perché l’Ucraina non è ancora membro Ue», azzarda Vauthier, che puntualizza di non voler entrare in questioni politiche, tantomeno nell’eventualità (remota) di negoziati di pace. «Io sono qui solo per aiutare la gente a continuare a credere che ci sia un futuro e questo non potrà che passare attraverso le loro coltivazioni». Sotto le bombe russe, non è un compito facile.