La storia

La tragica storia dei 43 studenti scomparsi in Messico. E per cui i familiari cercano giustizia

di Chiara Sgreccia   16 maggio 2022

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I ragazzi sparirono mentre andavano a una manifestazione nel 2014. Attaccati dalla polizia. Ma i parenti contestano la versione ufficiale, accusano il governo, l’esercito e i troppi depistaggi

Più che i Narcos, è stato lo Stato. Sono passati più di sette anni dalla notte in cui 43 studenti della Scuola normale rurale Raúl Isidro Burgos di Ayotzinapa, nello stato di Guerrero, in Messico, sono scomparsi. Ma la verità su che cosa sia accaduto il 26 settembre 2014 è ancora avvolta nella nebbia. Sarebbero dovuti arrivare a Città del Messico il 2 ottobre, per partecipare alla manifestazione in ricordo del massacro di Tlatelolco del 1968, quando l’esercito uccise centinaia di persone che erano scese in piazza per unirsi alle contestazioni che stavano, in quegli anni, mettendo in discussione il sistema di potere che dominava il mondo intero. Anche Oriana Fallaci, la giornalista e scrittrice fiorentina, lì per raccontare le proteste, fu ferita negli scontri, creduta morta finché un prete all’obitorio non si rese conto che non era così. Tlatelolco era già stata la sede di un altro massacro nel 1521: i conquistadores spagnoli ammazzarono migliaia di aztechi decretando, di fatto, la fine della guerra di conquista.

 

Nel 2014 anche gli studenti della scuola di Ayotzinapa volevano unirsi alla manifestazione commemorativa. Per farlo sequestrarono cinque autobus. La confisca dei veicoli è una pratica comune perché le scuole più povere spesso non dispongono dei mezzi di trasporto necessari agli allievi, ad esempio, per raggiungere i luoghi in cui devono svolgere il tirocinio. Così quando gli studenti ne hanno bisogno vanno ai terminal o bloccano gli autobus per strada e informano l’autista che il mezzo è espropriato a scopo didattico. Non si tratta di un vero e proprio furto perché di solito si raggiunge un accordo con l’autista che rimane sul bus e riceve un pagamento.

Come spiega Andrea Cegna, autore ed esperto di America Latina, «le scuole rurali per maestri sono nate come elemento critico dopo la rivoluzione messicana per portare a termine la riforma dell’istruzione che non teneva conto dei campesinos, i contadini. E, quindi, per promuovere l’alfabetizzazione nelle campagne. A metà del Novecento ce n’erano trentasei. Dopo le proteste di Tlatelolco nel Sessantotto il governo federale chiuse molti istituti perché considerati il cuore dei movimenti di rivolta di sinistra, contro il potere dello Stato». Oggi ne restano solo quattordici, tra cui quello di Ayotzinapa.

 

Secondo quanto fino ad ora ricostruito sulla notte tra il 26 e il 27 settembre 2014, gli studenti erano sui bus sequestrati e stavano uscendo dalla città di Iguala quando la polizia ha iniziato ad attaccare. Le forze dell’ordine hanno fermato i mezzi e sparato sugli studenti. Tre sono morti subito, altri sono scappati. Quarantatré sono scomparsi senza lasciare traccia. Erano stati costretti dalle forze dell’ordine a scendere dal bus ma non sono mai arrivati in carcere. I ventidue agenti della polizia locale identificati come responsabili dell’accaduto sono stati arrestati ma alla «verità storica», ufficializzata dal procuratore generale della Repubblica Jesús Murillo Karam il 7 novembre del 2014, secondo cui i giovani furono consegnati a membri del gruppo criminale Guerreros Unidos, uccisi e bruciati nella discarica di Cocula, vicino Iguala, nessuno dei familiari dei desaparecidos ha mai creduto. La spiegazione fornita dalle autorità è stata ampiamente criticata anche dagli esperti internazionali, per l’Onu torture e l’insabbiamento delle prove hanno compromesso le indagini.

Quando sono arrivati i primi rapporti sulla vicenda di Ayotzinapa sembrava che il Messico stesse uscendo da uno dei periodi più bui. L’allora presidente Enrique Peña Nieto stava promuovendo le controriforme dell’istruzione e dell’energia e aveva fatto arrestare “el Chapo” il narcotrafficante più ricercato del Paese. Gli episodi di violenza che avevano segnato la precedente amministrazione di Felipe Calderón non occupavano più le prime pagine dei giornali, ma soprattutto perché l’idea che le autorità fossero impegnate in una guerra contro il narcotraffico aveva spinto molti a considerare normali gli omicidi, le stragi, le sparizioni e le torture. Il caso degli studenti di Ayotzinapa, invece, ha squarciato l’illusione e riportato all’attenzione pubblica la mancanza di una distinzione, in Messico, tra legale e illegale, buoni e cattivi. E non soltanto la collusione tra forze dell’ordine e i criminali ma anche che in troppi casi sono la stessa cosa.

 

Come fa notare Cegna «la verità storica è piena di lacune e montature costruite per chiudere il caso. Serviva per assolvere lo Stato, i suoi vertici, e alimentare il mito del Paese fallito nelle mani dei gruppi del crimine organizzato. Diverse indagini indipendenti, però, l’hanno smentita. Qualche settimana fa il terzo dossier del Gruppo interdisciplinare di Esperti Indipendenti (istituito dalla Commissione Interamericana per i Diritti Umani, ndr) ha svelato il ruolo che l’esercito ha svolto nella vicenda».

 

L’informativa dimostra che alcuni membri dell’esercito erano infiltrati da tempo tra gli studenti della Normale Rurale, alcuni si trovavano sugli autobus il 26 settembre, e da lì hanno dato informazioni su cosa stesse accadendo. Inoltre, è stato reso pubblico un video in cui una dozzina di persone appartenenti alla marina militare, alla procura, e al ministero della Difesa spostano materiale e appiccano un incendio nella discarica di Cocula, poche ore prima dell’arrivo degli inquirenti, proprio nel giorno in cui le autorità dichiararono per la prima volta di avere novità nelle indagini, il 27 ottobre 2014. Le forze militari, quindi, e in particolare il 27esimo battaglione di fanteria, postazione militare che si trovava nei pressi di Iguala, avevano informazioni sulla strage di Ayotzinapa che per anni hanno taciuto, contribuendo all’inquinamento delle indagini.

 

«Le autorità messicane hanno manipolato la realtà. Questa è una cosa molto grave perché per anni hanno silenziato la verità e ingannato la popolazione», afferma Manuel Vázquez Arellano, uno dei sopravvissuti di Ayotzinapa, oggi deputato federale per Morena, il partito fondato dall’attuale presidente Andrés López Obrador.

 

«Immaginavamo il coinvolgimento dello Stato, abbiamo lottato affinché la verità venisse a galla anche quando molti ci consideravano dei pazzi. Il tempo ci sta dando ragione». Come sottolinea María Luisa Aguilar Rodríguez del Centro de Derechos Humanos Miguel Agustín Pro Juárez, l’organizzazione che segue e rappresenta legalmente le famiglie degli studenti di Ayozinapa, «i familiari degli scomparsi non si sono mai arresi. Hanno trasformato il caso in un paradigma internazionale. Svolgono un ruolo fondamentale nel far progredire le indagini e hanno fatto sì che l’accaduto attirasse l’attenzione del mondo intero su un problema strutturale del Paese».

Il dramma dei desaparecidos, infatti, trafigge il Messico e le vite dei suoi cittadini. Sono quasi 100 mila le persone scomparse nel Paese, secondo la Commissione nazionale di ricerca che tiene un registro risalente al 1964. Tra settembre 2020 e la fine di luglio, 6.453 persone sono state dichiarate scomparse o irreperibili. E secondo il report stilato dal Ced, Comitato delle Nazioni Unite contro le sparizioni forzate, che a novembre 2021 ha vistato per la prima volta il Messico, più di 52 mila morti non identificati giacciono attualmente in fosse comuni, strutture forensi e università.

 

«Questa cifra, nonostante la sua grandezza, non include i corpi non ancora localizzati, né le migliaia di frammenti di resti umani che le famiglie e le commissioni di ricerca raccolgono settimanalmente in tombe clandestine», si legge nel rapporto. A sparire sono per maggior parte uomini tra i 15 e i 40 anni, anche se con la pandemia di Covid-19 c’è stato un aumento del numero di sparizioni di bambini, adolescenti e donne. Scompaiono anche indigeni, giornalisti, difensori dei diritti umani e membri della comunità Lgbt, «per opera delle forze di sicurezza o di gruppi della criminalità organizzata, a scopo di pulizia sociale o sfruttamento sessuale».

 

L’impunità è una tendenza ricorrente in Messico e la mancanza di fiducia nelle istituzioni da parte dei familiari delle vittime si traduce in un alto numero di casi non denunciati. Anche in un Paese abituato agli atroci crimini che il narcotraffico e il suo contrasto portano con sé, il dramma dei desaparecidos continua a scuotere le coscienze. L’assenza dei corpi, della certezza delle morte, la mancanza di una spiegazione razionale che motivi le sparizioni, inducono i cari delle vittime a un’estenuante attesa della verità che, però, è improbabile che arrivi. «Mio fratello è vivo, lo sento», dice con convinzione Ivon Alvarez, sorella di Juan, scomparso nel 2013 da Chilpancingo, nello stato di Guerrero. «Non ho mai cambiato il mio numero di cellulare da quando non c’è più Juan, perché lo conosce a memoria. Così quando vorrà potrà chiamarmi». Anche i familiari di Benjamin, uno degli studenti scomparsi di Ayotzinapa, aspettano il suo rientro. Myriana, la sorella, torna spesso nella valle in cui giocavano da bambini: «Da qui sento l’eco dei villaggi vicini e mi sembra di tornare indietro nel tempo». Gli assenti infestano la memoria collettiva e divengono una testimonianza dell’incapacità dei governi di fermare lo spargimento di sangue e fare giustizia.

 

Con l’attuale amministrazione del presidente López Obrador, sembra che le autorità si stiano impegnando per svelare che cosa è accaduto nella notte del 26 settembre 2014 a Iguala. Ma, come spiega Cegna, «la paura è che questo resti soltanto un caso isolato, seguito perché ha attirato l’attenzione internazionale sul problema delle sparizioni forzate in Messico». Ci sono migliaia di altre persone che, proprio come i familiari dei 43 studenti Ayotzinapa, vivono nell’attesa che qualcuno dica loro la verità.