Simone Renda è stato torturato a morte in un carcere messicano. Sua madre Cecilia l'ha saputo con un fax. Da quel giorno non si fermata un attimo. E con le sue sole forze, è riuscita a ottenere un processo, il primo del genere in Europa, nella patria della vittima e non dei carnefici

“Ai genitori di Giulio Regeni auguro buona fortuna, ma sono degli illusi se pensano che qualcuno li aiuterà: non ci sarà nessuno per loro, come nessuno c’è stato per me”. Cecilia Renda è oggi a pochi metri dal suo, personalissimo e vano, traguardo: il 29 settembre a Lecce ci sarà l’udienza del processo ai poliziotti, al giudice e al direttore del carcere messicani accusati di aver torturato fino alla morte suo figlio Simone.

“Sono andata a prendere mio figlio all’aereoporto - racconta - Sarebbe dovuto rientrare. Ma non l’ho visto scendere. Ho pensato che avesse perso il volo, anche se mi ha stupito che non avesse telefonato. Poi più niente, per giorni. Fino a quando non ho ricevuto un fax dove mi si diceva che dovevo pagare per la cremazione della sua salma. Che mio figlio fosse morto l’ho saputo così”.

Comincia così, dalla fine, il racconto di Cecilia Renda, madre di Simone, un ragazzo morto di infarto in una cella in Messico, dove era stato condotto dopo un arresto quantomeno arbitrario (ufficialmente per molestia, per essersi affacciato in boxer dalla camera, in realtà, a quanto emerso, preso da una pattuglia corrotta in cerca di denaro facile). Mentre parla fitto non si capisce se ce l’ha di più con i poliziotti che le hanno ucciso il figlio o con la Farnesina che l’ha lasciata sola.

“Mi spiace dirlo ma dall’ambasciata e dal ministero non ho cavato un ragno dal buco: nessun tipo di sostegno, né legale né finanziario per le spese, che pure sono state molte. Solo mi hanno girato il nome di un avvocato”. Con quell’avvocato, trasformato in investigatore, che Cecilia paga di tasca sua e che ora vive in Italia dopo aver ricevuto varie minacce per sé e per la sua famiglia, si riesce a ricostruire la storia delle ultime ore di vita di Simone e da ultimo a mettere insieme un processo, il primo del genere in Europa, per violazione dell'articolo Uno della Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, da celebrare, fatto del tutto nuovo, nella patria della vittima e non dei carnefici.

“Questo processo è la mia prima tappa- continua la madre di Renda- poi spero arriveranno la condanna e l’estradizione”. Alcuni degli imputati sono già stati condannati in Messico, nel 2010, per omicidio colposo e abuso di potere, anche se in buona sostanza se la sono cavata con una multa, il giudice Hermila Valero Gonzalez, Cruz Gomez (responsabile dell’ufficio ricezione del carcere) e Enrique Sánchez Nájera (guardia carceraria) insieme ai poliziotti della Polizia Turistica di Playa del Carmen.

“La storia di mio figlio, per quel che siamo riusciti a ricostruire ha molti punti di contatto con quella di Giulio Regeni, perché in entrambi i casi si tratta di ragazzi uccisi dagli abusi commessi da frange distorte, corrotte, malate della Polizia locale”: Renda era arrivato al suo ultimo giorno di vacanza e la mattina della partenza, sarebbe stato arrestato da un gruppo di poliziotti con accuse piuttosto generiche. Lì in cella, senza acqua e senza cibo, Simone, ha passato in isolamento le ultime 42 ore della sua vita, fino a morire completamente disidratato.
“Aveva l’aereo la mattina stessa. Mi aveva chiamato la sera prima, mi aveva detto che aveva finito i contanti, che doveva solo pagare l’albergo e lo avrebbe fatto con la carta di credito, e che quindi non c’erano problemi. Quel tipo di carta, una carta American Express Oro, all’epoca non permetteva di ritirare contanti. Poi più nulla. Sappiamo che il mattino dopo, non ha liberato la stanza, forse non ha sentito la sveglia. Non si sa di preciso. Fatto sta che fu svegliato dalla Polizia entrata in camera con il passe-partout: confuso, senza occhiali, con un aereo da prendere, in preda al panico, in uno stato di evidente malessere, fu portato via. Dalle testimonianze, tra cui quella dell’ambasciatore Felice Scauso, risulta che non abbia creato disturbo o particolari fastidi, anche perché probabilmente il principio di infarto era già in atto. Comunque sia è stato prelevato di peso da un gruppo di guardie. Pare che per rilasciarlo volessero contanti. Purtroppo in Messico questi sono casi all’ordine del giorno.

Ma lui non aveva denaro e non aveva modo di ritirarne. Il percorso tra l’albergo e la stazione di polizia è di cinque minuti in macchina: loro ce ne anno messi più di 90. Un tempo nel quale verosimilmente Simone è stato picchiato e torturato. Poi lo hanno messo in isolamento per 42 ore senza né cibo né acqua, senza poter fare nemmeno la telefonata di prammatica, in assenza di un'udienza di convalida dell'arresto, di un'assistenza tecnica e di un interprete, senza niente. Fino a quando non è morto.

Ci sono due aspetti particolarmente assurdi e paradossali in tutto questo: il medico del carcere aveva detto che stava male e che doveva essere portato all’ospedale, ma nessuno ha fatto niente; e soprattutto il giudice responsabile della scarcerazione, che in Messico sarebbe comunque dovuta finire dopo 36 ore, non ha firmato l’ordine perché testualmente ‘non trovava una penna’”.

Il giudice che non trovava una penna, i poliziotti che hanno preso in custodia Simone, il vice direttore del carcere, le guardie carcerarie di Playa del Carmen ora sono sotto processo a Lecce. Il processo è ormai alle battute finali.

“Da quando ho ricevuto quel fax non mi sono fermata mai un minuto: ho avuto la prontezza di riflessi di impedire la cremazione, ho avviato una serie di indagini private che mi hanno portato dopo dieci anni al punto in cui sono ora. Ci sono voluti tempo, fatica a e denaro: non dico quanto, ma tanto. Ho fatto tutto da sola. E forse è stato un bene, con il senno di poi, che non ci si siano messe di mezzo autorità, ambasciate e ministeri. E’ stata un’impresa gigantesca e terribile, ma non potevo lasciar correre: quelli hanno ucciso mio figlio. E chissà quanti altri nello stesso modo in una zona considerata turistica”.

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