Il 2023 è stato l'anno più caldo. E anche l'ecosistema marino ha registrato temperature record. Alcune specie non si adattano, altre soccombono a quelle aliene. Solo nelle aree protette i fondali si conservano. Per questo bisogna istituirne di nuove

C'è un posto poco visibile agli occhi che ci dice molto più di quanto immaginiamo sugli effetti dei cambiamenti climatici. È il mare. O meglio, sono i fondali del mare e le sue specie che, reagendo all’innalzamento delle temperature, rimandano una fotografia dello stato di salute dell’ecosistema marino e di quello terrestre nel suo insieme. A darne contezza è Greenpeace che, con il Dipartimento di Scienze della terra, dell’ambiente e della vita (Distav) dell’Università di Genova, ha monitorato i fondali di 13 aree marine protette. Ne è uscito il progetto “Mare caldo” che lancia l’allarme sull’invasione di specie aliene, spesso predatrici aggressive, a discapito di quelle più vulnerabili e sensibili al caldo, tipiche dei nostri mari.

 

Un dato che non va sottovalutato: il mare, al pari delle foreste, infatti è il nostro polmone. Produce ossigeno. E accumula calore che poi sfoga sotto forma di uragani e tempeste che si vanno a sommare ai fenomeni estremi che caratterizzano quella che il segretario delle Nazioni unite, Antonio Guterres, ha definito «l’era dell’ebollizione globale». Ma se da un lato “Mare caldo” ha restituito il volto di un mare sofferente, dall’altro ha dimostrato come le conseguenze del riscaldamento globale sott’acqua siano attenuate – e questo elemento è davvero importante – nelle aree marine protette, dove le attività dell’uomo sono notevolmente ridotte o azzerate.

 

Si tratta di quelle zone di mare oggetto del Trattato Onu per la protezione degli oceani (detto “30x30”) che punta a trasformare il 30% dei mari in aree protette entro il 2030. Un accordo, la cui firma da poco apposta da più di 80 Paesi, è stata definita storica e può rappresentare l’unico vero scudo – a breve termine – per la protezione del delicato ecosistema marino. E proprio per questo gli ecologisti chiedono ai governi impegni più concreti e rapidi.

 

Il primo novembre scorso la temperatura media della superficie degli oceani è stata di 20,79 gradi, la più alta finora registrata da quando esistono strumentazioni moderne. Ben 0,4 gradi sopra la media del periodo (dati Nasa). A luglio, il Mediterraneo si è riscaldato nell’arco di due settimane molto più che in quasi due mesi dello scorso anno. Uno sbalzo repentino rispetto al passato, quando si è a lungo osservato un andamento che Monica Montefalcone, docente di Ecologia presso il Distav di Genova, definisce «lento e costante».

 

Montefalcone studia i fondali marini da anni e ha unito le sue forze a quelle di Greenpeace per andare a vedere con “Mare caldo” cosa sta succedendo nelle aree marine protette. La ricerca, si è sviluppata a partire dal 2019 e ha chiuso da poco la stagione 2023 nelle Isole Tremiti. Sono stati collocati dei sensori a diverse profondità per misurare la “febbre” del mare e sono stati effettuati dei monitoraggi biologici sulla fauna e sulla flora marina. Un check-up completo che mostra il «mutamento nelle strutture delle nostre comunità, con specie cosiddette termofile – che si adattano cioè ad una temperatura più calda – sempre più abbondanti e dominanti rispetto a quelle più vulnerabili proprie del Mediterraneo», racconta la ricercatrice. Che spiega come questo processo si sviluppi in modo diretto e indiretto. Ci sono cioè specie che stanno sparendo perché non si possono adattare al caldo, non è nella loro natura. È il caso, per esempio, delle nacchere di mare e delle immense gorgonie rosse che generano i nostri paesaggi sommersi. E poi ci sono specie che potrebbero anche sopravvivere, se non fossero letteralmente mangiate da quelle aliene che sono resilienti al caldo. Grossi predatori aggressivi che arrivano dai mari tropicali, come il pesce scorpione, ma anche specie come il pericoloso vermocane, una volta limitato al Mediterraneo orientale e che oggi vive anche nell’Arcipelago toscano. E l’ormai famoso granchio blu, finito questa estate agli onori della cronaca italiana. Uno scenario preoccupante che sta facendo saltare il tappo di un delicato equilibrio ambientale e che assume un significato più dirompente se si considera il quadro nel suo insieme.

 

Gli ecosistemi marini infatti producono la metà dell’ossigeno che respiriamo e rappresentano il 95% della biosfera del Pianeta. Oltre ad essere il più grande serbatoio di carbonio al mondo, il mare è come un termosifone: incamera caldo, che poi rilascia, alimentando eventi meteorologici estremi che vanno a incrementare proprio quella crisi climatica che è alla base del suo malessere. Un circolo vizioso di fronte al quale però possiamo fare qualcosa. E possiamo farla subito. La speranza arriva ancora da “Mare caldo” che dimostra, dati scientifici alla mano, come gli impatti dei cambiamenti climatici sono molto ridotti nelle aree marine protette già preservate da alcune attività umane come la pesca, gli ancoraggi selvaggi. In quelle zone di alto mare (200 miglia nautiche dalla costa) fuori dalle giurisdizioni nazionali che, dopo 30 anni di negoziati, sono finite al centro di un Trattato internazionale Onu. Un accordo che ora aspetta la ratifica degli Stati membri e che prevede che il 30% degli oceani diventi area marina protetta entro il 2030.

 

«È l’unica arma che abbiamo e a cui dovremo dare più spazio per difendere il nostro ecosistema marino nell’attesa che si compia una vera riconversione ecologica», conclude Giuseppe Ungherese, responsabile inquinamento di Greenpeace. Che chiede che il Trattato non resti carta straccia «come accaduto per il Santuario dei cetacei, dove le uniche attività tuttora non permesse sono le corse in motoscafo».