Il 6 febbraio è la giornata mondiale istituita per denunciare questa pratica che riguarda circa 200 milioni di donne nel globo. Ed è spesso sottovalutata perché nel nostro Paese riguarda le migranti. Una pratica dura a morire perché figlia della cultura del dominio

«Un dolore indimenticabile che non mi lascia mai, neanche quando dormo. Non è soltanto fisico. Sogno spesso quel momento, il luogo in cui mi trovavo e come mi tenevano per le braccia. Vorrei cancellare il ricordo, ma non ci riesco». Kaltuma ha vent’anni, è originaria della Somalia e vive in Italia da sette anni. Quando ne aveva poco più di sei ha subìto una mutilazione genitale. Mutilazione genitale femminile è il termine che l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha adottato nel 1995 per indicare tutte le procedure che comportano la rimozione, parziale o totale, o altre lesioni arrecate ai genitali femminili esterni, per motivi culturali o altre ragioni non terapeutiche.

 

In base ai dati raccolti dalle Nazioni Unite, nel mondo vivono almeno 200 milioni di donne con una mutilazione genitale e ogni anno quattro milioni di bambine rischiano di essere sottoposte a questa procedura. Si tratta di un fenomeno globale diffuso principalmente in trenta nazioni africane e mediorientali, ma presente anche in alcuni Paesi dell’Asia, dell’America Latina e fra le popolazioni immigrate che vivono in Europa occidentale, America del Nord, Australia e Nuova Zelanda. Per denunciare questa pratica lesiva dei diritti umani l’Onu ha dichiarato il 6 febbraio Giornata internazionale della tolleranza zero contro le mutilazioni genitali femminili.

 

Secondo una ricerca dell’Università Bicocca di Milano, le donne che hanno subìto questa violenza di genere in Italia sono quasi 88 mila. La maggior parte dei Paesi, europei ed extraeuropei, punisce le mutilazioni genitali femminili con diverse fattispecie di reato, come quelle di lesioni aggravate, abusi e maltrattamenti nei confronti dei minori. L’Italia, invece, nel 2006 si è dotata di una legge specifica che vieta l’esecuzione di tutte le forme di mutilazioni genitali femminili, punendo queste pratiche anche se commesse al di fuori dei confini nazionali.

 

Le mutilazioni genitali femminili sono annoverate dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul) tra le forme di violenza contro le donne basata sul genere. Si tratta, cioè, di una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini, impedendo la loro piena emancipazione, nonché uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini.

 

Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea, organizzazione che dal 2002 favorisce lo sviluppo economico e sociale delle donne, fino a pochi mesi fa ha fatto parte del Grevio, gruppo di esperte del Consiglio d’Europa sulla violenza contro le donne. «La cosa che ho potuto approfondire attraverso il Grevio è che le mutilazioni genitali e i matrimoni forzati sono ancora oggi due forme di violenza considerate quasi di serie B in Europa, semplicemente perché riguardano soprattutto quelle donne che fanno parte della categoria migrante», spiega. Secondo alcune stime, le vittime di questa procedura in Europa sarebbero 600 mila. «Se ci si limita a vietare la pratica, le famiglie manderanno le figlie all’estero per farle infibulare». Lanzoni ritiene, quindi, che sulle mutilazioni genitali femminili andrebbero sensibilizzate maggiormente le comunità migranti, lavorando anche con le scuole per facilitare un’emersione del fenomeno.

 

«Per Kaltuma era molto difficile parlarne a scuola», ricorda Marzia Bianchi, fotografa e madre adottiva della giovane. Un aiuto inaspettato è arrivato però dalla visione di “Fiore del deserto”, film del 2009 basato sull’autobiografia della modella e scrittrice di origine somala Waris Dirie, una delle voci più potenti contro le mutilazioni genitali femminili. «Mia figlia si è riconosciuta nella storia di Waris e ha compreso di non essere l’unica persona ad avere vissuto in maniera così traumatica quell’esperienza», dice Bianchi.

 

Dalla necessità di Kaltuma di rielaborare questo trauma tre anni fa è nato un progetto fotografico: Flor. «Abbiamo iniziato a farlo così, per gioco», continua Bianchi: «Le ho dato dei fiori, raccontandole come funziona l’apparato riproduttivo. Lei li ha presi e ha cominciato a tagliarli e cucirli, ripetendo la pratica che ha subito e trasformandoli in una piccola e personale opera d’arte. Il fiore è un riferimento iconico molto immediato, come simbolo della donna e della riproduzione, ma allo stesso tempo è uno stereotipo che Kaltuma decostruisce utilizzando ago, filo, resina. Il nome Flor, fiore, l’abbiamo trasformato in un acronimo: Female Liberties Oughta Rise (le libertà femminili dovrebbero avanzare)».

 

Uno degli obiettivi delle Nazioni Unite è eliminare le mutilazioni genitali femminili entro il 2030. Bianchi e sua figlia vorrebbero organizzare dei workshop sul tema, riprendendo il lavoro iniziato durante la pandemia. Sono, infatti, convinte che una lettura esclusivamente “medicalizzata” non rappresenti un contributo sufficiente per superare queste pratiche. La sfida è innanzitutto culturale. «È importante parlare con le nuove generazioni, ma non solo con le donne», conclude Kaltuma: «Vanno coinvolti anche gli uomini, se vogliamo cambiare le cose».