Dieci anni dopo l'omicidio del fotografo italiano e dell'attivista russo in Ucraina, parla l'ex fotoreporter francese William Roguelon che era con loro e riuscì a salvarsi. Racconta il percorso di recupero. E la battaglia per avere giustizia. «Parigi e Roma chiedano conto a Kiev di questo crimine di guerra»

C’è una sensazione che mi accompagna da dieci anni. Io sono sopravvissuto, mentre le due persone con cui mi trovavo sono morte. A pochi metri da me. È una sensazione difficile da sopportare e spiegare. Mi ricorda quella che hanno raccontato reporter e testimoni in passati scenari di guerra, come il secondo conflitto mondiale e il Vietnam. Anch’io, il 24 maggio 2014, ero nel Donbass per realizzare un reportage fotografico nel pieno degli scontri tra separatisti filorussi e forze regolari di Kiev. Ero assieme ad Andrea Rocchelli e Andrej Mironov, quando siamo finiti vittime dell’agguato del Karachun. Loro sono rimasti uccisi; io mi sono ritrovato da solo nel fossato in cui avevamo cercato riparo dagli spari, gravemente ferito a entrambe le gambe.

 

Sono riuscito a fuggire e a mettermi in contatto con chi potesse farmi rientrare in Francia, il mio Paese. Così, dopo 48 ore d’inferno e con l’aiuto dell’ambasciatore Alain Rémy, sono salito su un volo commerciale per Parigi. Lì sono stato operato, iniziando un percorso di cura durato un anno. Nonostante abbia terminato la riabilitazione fisica e psicologica, continuo a fare i conti con disturbi post traumatici da stress e con l’impatto che la vicenda ha avuto sulla mia famiglia. Conseguenze che mi hanno spinto ad abbandonare la fotografia. Oggi sono a capo di un’azienda sportiva innovativa; mi occupo di digitalizzazione, ma anche della formazione di volontari ed educatori affinché lo sport si trasformi in strumento d’integrazione. Ma non è stato facile. Ho superato le difficoltà grazie alle persone care e alla responsabilità che sento verso Rocchelli e Mironov.

 

Li avevo incontrati nell’albergo in cui solitamente alloggiavano i giornalisti e sul campo, in diverse occasioni. Avevamo imparato a conoscerci, andavamo d’accordo sul modo d’intendere il nostro lavoro. Erano professionisti preparati e coscienziosi, perciò ho deciso di muovermi con loro. Pure quel giorno: dovevamo visitare un villaggio bombardato vicino a Sloviansk, volevamo documentare le condizioni terribili a cui la guerra costringeva la popolazione civile. Per farlo, loro due hanno perso la vita. Ecco perché li rispetto profondamente. Ed ecco perché, nell’ottobre successivo, mi sono unito al procedimento penale italiano, a cui aveva dato impulso la denuncia della famiglia Rocchelli per l’omicidio di Andrea, presentandone una anch’io per i fatti di cui ero stato protagonista. La vicenda giudiziaria, che mi ha visto testimone nelle indagini e nel processo, mi ha peraltro offerto l’opportunità di avvicinarmi ai Rocchelli, con cui ho stretto legami forti. E che appoggio nella ricerca di verità. Penso che se fossi stato io a morire e fosse stato Andrea a salvarsi, loro avrebbero fatto lo stesso per me.

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Nel frattempo, ho fatto valere le mie ragioni in Francia assieme alla mia avvocata, Maud Sécheresse. Abbiamo sottoposto il caso alla Commissione per il risarcimento delle vittime di reati di Bordeaux, la mia città d’origine. È cominciato un iter complicato, tra rigetti, rinvii e ricorsi, che si è concluso nel 2021 con un riconoscimento importante: sono diventato, allora, il primo giornalista francese risarcito per avere subìto un crimine di guerra come civile. Ciò ha rafforzato la nostra convinzione – data anche l’assenza di novità nel procedimento in corso a Bordeaux – di proseguire sul fronte penale rivolgendoci al Polo specializzato in crimini di guerra e contro l’umanità del Tribunal de Grande Instance di Parigi. Con la mia nuova legale, Marilou Séval, attendiamo sviluppi: l’obiettivo è che lo Stato ucraino e i suoi vertici militari, di stanza quel giorno al Karachun, siano condannati. Sarebbe cruciale per dimostrare che chi uccide i giornalisti può e deve essere punito.

 

E questo perché le violenze commesse ai danni degli operatori dell’informazione rappresentano una minaccia per la società intera: sono un attacco diretto alla democrazia. Ostacolando il compito dei media di aggiornare il pubblico in maniera obiettiva, incidono sulla capacità collettiva di prendere decisioni e di alimentare il dibattito. Sono convinto, infatti, che il modo in cui percepiamo la realtà e interagiamo dipenda in larga misura dalle informazioni a nostra disposizione. Perciò difendo fermamente la libertà di espressione e di stampa come diritti fondamentali: la circolazione delle idee è un pilastro del progresso umano. Al contrario, nel mondo e nella quotidianità, i giornalisti affrontano molteplici insidie e mettono a rischio la loro vita. Dai rapimenti alla tortura, dalla detenzione arbitraria alle molestie, il pericolo cresce. È indispensabile e urgente affrontarlo.

 

Vedo, insomma, indeboliti l’indipendenza e il pluralismo dell’informazione. Anche nel mio Paese. Dove, al di là della retorica, il governo non sembra agire per proteggere la libertà di stampa. Ed è difficile capire perché la Francia o altri Stati europei non chiedano conto all’Ucraina della morte dei miei colleghi e del mio ferimento. Come fotoreporter che ha vissuto l’orrore della guerra nella stessa Ucraina e prima ancora in Siria, sono consapevole delle sofferenze che essa provoca. La brutalità dei conflitti armati spesso comporta atti riprovevoli da entrambe le parti. E da entrambe le parti l’Europa deve esigere rispetto del diritto internazionale. Per quanto riguarda il nostro caso, quindi, mi rivolgo alle autorità francesi e italiane: si attivino affinché sia fatta giustizia. E ribadisco sia il mio incrollabile sostegno alla famiglia Rocchelli sia il mio impegno in memoria di Andrea e Andrej.

 

(Testo raccolto da Anna Dichiarante)