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La Cina ha creato la sua nuova Shangai. In Perù
Un porto gigantesco destinato a essere lo snodo del trasporto via mare tra il Sudamerica e l’Asia. È a Chancay, frutto di un investimento miliardario del governo di Pechino. Un pezzo di Cina oltreoceano
La Cina ha scelto il Perù. Non lo ha scelto per l’argento, il rame, lo zinco che estrae da anni con le sue partecipazioni nelle grandi miniere della Sierra e delle Ande. Lo fa con un porto destinato a essere il più grande hub del commercio marittimo di tutta l’America Latina. È quasi pronto. Il prossimo 10 novembre sarà inaugurato in pompa magna durante il vertice dell’Apec, la Cooperazione Asia-Pacifico, alla presenza del presidente Xi Jinping che vuole così imprimere una valenza geopolitica a questa impresa ingegneristica destinata a cambiare il mercato internazionale e gran parte di quello via mare.
È l’ultima tappa inanellata dalla Silk Road, la Via della Seta con la quale il gigante asiatico sta costruendo l’alternativa economica all’emisfero nord del Globo. Con la doppia crisi creata dai missili all’imboccatura del Mar Rosso che impediscono alle navi di passare per Suez e quella idrica che costringe Panama, ormai quasi a secco, a dimezzare il transito dei cargo sul suo canale, Chancay si propone come la nuova porta di accesso all’Asia dirottando sull’Oceano Pacifico la maggior parte del traffico commerciale marittimo.
Sarà il primo porto privato per uso pubblico del mondo. Con una caratteristica unica: ha una profondità di 16 metri. Questo consentirà il transito e l’approdo delle navi di ultima generazione: bestioni lunghi 400 metri, larghi cinquanta, in grado di trasportare fino a 15 mila container. Da qui, con una rotta che punta direttamente sulla Cina, le navi raggiungeranno la meta in 10-13 giorni. Un risparmio di 30 rispetto ai 45 necessari finora per risalire tutta la costa del Pacifico fino al Messico e da qui tagliare verso Ovest. Questo significa poter trasportare anche merce fresca, come frutta e verdura, senza correre il rischio che maceri. E significa attrarre proprio qui le tante navi di Cile, Ecuador, Colombia che potranno trasferire le loro merci sui bestioni più grandi, risparmiando tempo e denaro.
La “Shanghai del Sudamerica”, come è stata subito ribattezzata, si trova a 75 chilometri a Nord di Lima. Appare quando si supera l’ennesima collina di un deserto uniforme ma policromo e la Panamericana Norte scende verso valle. Una cittadina di 70 mila abitanti, distretto di una provincia che a sua volta fa parte di una regione, che nessuno avrebbe mai pensato potesse un giorno diventare il ponte verso la Cina e il resto dell’Asia. Per costruire la darsena del mega porto è stata tagliata metà di una montagna e le tonnellate di terra e sabbia rovesciate in acqua hanno rubato un pezzo di mare. Una barriera di 2,7 chilometri serve da frangiflutti. La superficie del porto è di 141 ettari, con 4 moli estesi per altri 1.500 metri destinati alle operazioni di carico e scarico. Tre ospiteranno le enormi navi cinesi con i container; uno sarà dedicato solo alla raccolta delle granaglie che saranno convogliate dentro un grande condotto, costruito sotto un tunnel lungo 1,8 km nel quale transiteranno anche i tir nei due sensi di marcia. Ma l’intera area si estende su 843 ettari, già suddivisi nel masterplan tra logistica, area verde, commerciale e residenze; 233 ettari saranno occupati dall’area industriale dove è prevista anche una fabbrica di container, e infine 4 ettari per gli svaghi e i giochi, con bar, ristoranti, palestre e campi sportivi.
Chancay non sarà solo un porto di cabotaggio. Ma una cittadina, chiusa e transennata, completamente privata, che si è imposta su un borgo di pescatori. Un polo industriale su cui svetta la bandiera di Pechino. L’impatto ha sconvolto questo piccolo centro un po’ in declino dopo la crisi della pesca. Lo spiega bene Miriam Pita Arce, presidente del Comitato degli abitanti di Chancay, la prima che incontriamo nel viaggio dentro il futuro. «Il progetto – racconta – nasce nel 2008. Qui, prima c’erano i tedeschi e gli americani con la loro fabbrica del pesce. La farina che ricavavano veniva venduta in tutto il mondo».
Due ammiragli della Marina, Juan Ribaudo e Fernando Ruiz, sognano un approdo all’altezza dei Paesi confinanti. Ribaudo ha una società, la Volcan, che tratta minerali. Con Ruiz, compagno d’armi, pensa che con il porto si possano riattivare le vecchie strade in disuso, quelle che si arrampicano sulle Ande, scendono verso la selva, arrivano al confine con il Brasile e sbucano tra Amazonas, Acre, Rondônia, Mato Grosso. Il Brasile è una potenza. Deve esportare e importare. Ha molta merce da offrire. La strada può diventare una ferrovia e Chancay il suo terminale sul Pacifico. «Bellissimo progetto», commenta Pita Arce. «Ma nessuno sapeva niente. Tutti erano convinti che restasse solo un sogno. Invece, di colpo, spuntano i cinesi».
I cinesi sono la Cosco, la China Ocean Shipping (group) Company. Una holding del mare, pubblica, controllata dal governo di Pechino. Un colosso. Ha partecipazioni nel Canale di Panama, sta costruendo lo scalo di Itaquí in Brasile, gestisce 34 porti nel mondo, 11 fuori dalla Cina. Parliamo di Rotterdam, Pireo, Valencia, Bilbao, Anversa, Seattle, Shangai, Hong Kong, Singapore, Abu Dhabi, Suez, Amburgo. Ha una flottiglia di 1.300 navi, muove qualcosa come 140 milioni di container l’anno. Mario de las Casas Vizquerra, manager esperto di logistica mineraria, assunto al volo dalla Cosco per gestire i rapporti con il Perù, conosce bene la zona. La sua famiglia era proprietaria terriera di un fondo che produceva cotone. Si servivano della piccola strada ferrata per portare a valle i sacchi dei fiocchi che poi imbarcavano sulle navi al Callao, molto più a sud.
È l’uomo giusto al posto giusto. Parla con Ribaudo e gli altri soci per i quali ha fino a quel momento lavorato. Ma quando l’ammiraglio muore improvvisamente la Volcan resta nelle mani delle sorelle e delle figlie che si trovano per le mani qualcosa che non conoscono. È chiaro che c’è bisogno di un socio. Tutto il progetto resta in un cassetto. Siamo nel 2016. Al potere è intanto arrivato Pedro Pablo Kuczynski. Il suo vice è Martín Vizcarra che troveremo poi come presidente qualche anno dopo. Sono i referenti politici per trovare un socio di peso mentre tutte le autorizzazioni vengono concesse.
«È qui che avviene la svolta», ricorda la leader sociale Pita Arce. «Nel silenzio passa la vendita di un pezzo di terra peruviana a uno Stato straniero». Gli uomini della Marina assieme ad alcune lobby del Congresso aprono la strada. Si incarica la banca francese Lazard, uno dei più attivi advisor sul piano delle fusioni, che individua la Cosco. La quale accetta di andare a vedere e mentre gli interlocutori peruviani parlano e spiegano il loro piano, quelli cinesi iniziano a vedere un film diverso. «I cinesi ragionano sul lungo termine. Dieci o venti anni», spiega de las Casas, «noi viviamo sul brevissimo periodo. Metà della popolazione lavora in modo informale. Pensiamo giorno per giorno».
È chiaro che si tratta di un’occasione per il Perù. Già si parla delle grandi navi da crociera che useranno il mega porto e scaricheranno a terra migliaia di turisti ai quali vanno tuttavia offerti una serie di servizi, da migliorare e incrementare. «Il problema», dice Mercedes Ines Carazo, fisica e oceanografa argentina, un passato come ufficiale dei Montoneros, guerriglia degli anni ’70, oggi alla guida di un comitato tecnico governativo, «è la classe dirigente. Temo che ancora non abbiano capito la portata di questa storia». La Cosco propone subito 4 moli per diventare poi 15 a seconda del volume di traffico. Mette sul tavolo 1,3 miliardi di dollari. Ma spiega anche che non è interessata ai minerali. Per il momento. Pensa a una rotta diretta su Shanghai da coprire in 15 giorni. L’unica cosa da fare è il fondale. La Volcan sparisce. Pechino l’ha ingoiata in un solo boccone. È servita da Cavallo di Troia.
Il rappresentante della Cosco ci porta sul sito. Il cuore dell’hub è nel grande piazzale quasi ultimato davanti al porto. Una nave cinese continua a dragare le acque della darsena per uniformare la profondità. Squadre di operai lavorano giorno e notte per ultimare il tunnel che passerà sotto la città e sfocerà sulla Panamericana con una sopraelevata e un’uscita autonoma per evitare l’ingolfamento del traffico.
La galleria è già crollata una volta e ha ingoiato quattro case. Proteste, paura, lunghe trattative con la popolazione che, scossa, si chiedeva cosa stesse accadendo. «Non è stato facile», spiega de las Casas che ha dovuto placare le rivolte sociali, «ma alla fine la Cosco ha indennizzato chi aveva perso la propria abitazione e abbiamo illustrato i tanti benefici che Chancay e l’intera regione ricaveranno da questa operazione». Pochi nell’immediato ma vitali per l’indotto a lungo termine. Il governo ha realizzato uno studio di impatto ambientale; ha registrato le criticità ma alla fine ha dato il suo benestare. L’amministrazione locale solo allora si è scossa dal suo torpore. Il sindaco ha chiesto aiuto al governo centrale. Ma la burocrazia e le trattative al Congresso allungano i tempi per delle risposte.
La Cosco prosegue dritta. Il porto prende forma: sarà completamente automatizzato, con le gru che si muovono veloci e precise sulle montagne di container come in un time-lapse. Senza presenza umana. Tecnologia avanzatissima. Le 2.000 assunzioni, destinate a crescere fino a 7.500, saranno di supporto e vigilanza. Due i rischi: l’arrivo dei cartelli criminali che puntano al controllo dei porti; la possibilità che Chancay si trasformi, in futuro, anche in una base militare cinese. Gli Usa sono preoccupati. Lo dicono al Financial Times: «Il Perù dovrebbe riflettere bene sulle conseguenze di questa scelta». Ma i gringos devono incolpare solo sé stessi: da una decina d’anni hanno abbandonato il Sud America. Lo scacchiere geopolitico è cambiato. La Cina ha raggiunto la sua ultima tappa della Via della Seta. Ha chiuso il cerchio. Il Brasile si collegherà all’Asia attraverso l’Amazzonia e poi il Pacifico. Risparmierà costi e tempi nei trasporti ora confinati sull’altra sponda, nell’Atlantico. Il Perù si prepara a un futuro che lo pone al centro del subcontinente australe.