Nell’intera Striscia gli aiuti entrano a stento. Al valico di Rafah i controlli di Tel Aviv bloccano i camion. Ma l’arrivo dei beni essenziali è un discrimine tra crisi umanitaria e genocidio

In uno dei capannoni di stoccaggio degli aiuti umanitari nel Sud-Est della Striscia di Gaza, tra la città di Rafah e il valico di confine di Kerem Shalom, Karam Jad ogni giorno si trova sommerso da scatoloni di beni di prima necessità che non sa se mai arriveranno a destinazione. Il rischio, infatti, è che non giungano nemmeno ai checkpoint israeliani installati all’interno della Striscia perché possono essere bombardati o saccheggiati prima di raggiungere i civili palestinesi, che ne hanno estremamente bisogno, soprattutto al Nord di Gaza.

 

«Se c’è un imperativo categorico nella consegna e nella distribuzione degli aiuti umanitari è quello di non tardare», scandisce con forza Karam, in una telefonata WhatsApp con L’Espresso dal magazzino pieno di rumori. «Tutto il contrario sta succedendo da mesi alle porte e dentro la Striscia di Gaza, dove migliaia di scatole di cibo e medicine rimangono bloccate o non si vedono neanche arrivare».

 

Karam, 21 anni, ha lasciato lo scorso novembre Gaza City. Da allora lavora nella logistica per Move One, una delle aziende internazionali che si occupano di coordinare l’entrata degli aiuti umanitari, facendo da ponte al confine con numerose organizzazioni umanitarie (Medici senza Frontiere, World Central Kitchen, International Medical Corps). Dovrebbe accompagnare i convogli verso il Nord a rischio carestia, ma non ha ancora ricevuto il permesso dagli israeliani per la traversata. Un cammino complesso, dal Sud al Nord della Striscia, perché, oltre alle strade che non esistono quasi più a causa dei bombardamenti o sono irriconoscibili, senza edifici ai lati, non è facile trovare camionisti che siano disposti a rischiare.

 

Prima di passare dalle mani di Karam e di poter proseguire, però, i beni devono avere superato i controlli delle autorità israeliane, che bloccano la maggior parte degli aiuti: in questi mesi solo il 10% è giunto alla popolazione. L’Alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione europea, Josep Borrell, ha accusato Israele di utilizzare «la fame come arma di guerra».

 

Dall’altro lato del confine, al valico di Rafah, sul territorio egiziano, lo specchio di quello che vive Karam ogni giorno l’ha visto coi suoi occhi il professore di Diritto penale internazionale, Triestino Mariniello, tornato a inizio marzo da un viaggio in Egitto assieme a una delegazione italiana di rappresentanti di ong, giornalisti, parlamentari. «Ci sono decine di ambulanze respinte al valico da Israele, mentre il sistema sanitario di Gaza è al collasso. Abbiamo visto incubatrici, bombole di ossigeno, chemioterapici, anestetici, insulina per bambini. Perfino le carrozzine per disabili sono bloccate». La lista è veramente lunga, racconta Mariniello, che oltre a insegnare all’Università John Moores di Liverpool, difende come avvocato le vittime civili di Gaza alla Corte penale internazionale dell’Aja.

 

«Questi beni vengono ritenuti pericolosi da Israele, nonostante sappiamo da mesi che sono amputati arti ai bambini senza anestetici» e lo stesso avviene per i parti cesarei. Uno dei tanti punti critici, continua il professore, è che «Israele non ha mai fornito alle organizzazioni umanitarie una lista dei beni vietati. Questo rende tutto più difficile e imprevedibile».

 

Anche Oxfam, nel suo ultimo rapporto, denuncia che le autorità israeliane hanno respinto un carico di ossigeno, incubatrici e attrezzature igienico-sanitarie stoccati ad Al-Arish, un altro punto di passaggio nella catena di distribuzione degli aiuti, a soli 40 chilometri dal confine. Tutto ciò con 2 milioni di palestinesi in emergenza. La Mezza Luna Rossa, che opera al valico di Rafah, ha spiegato che basta un pacco di aiuti umanitari su cui viene messa una “X” rossa a costringere l’intero camion a tornare indietro. Ed è la fila di camion lunga quattro chilometri, con cibo a bordo che nel frattempo va a male, a mostrare come il segno rosso di rigetto sia all’ordine del giorno. Un’attesa infinita per un nulla di fatto. «Sono stati respinti pure cornetti al cioccolato con la motivazione ufficiale che si tratta di beni di lusso», aggiunge Mariniello, «per non parlare dei giocattoli per bambini. Queste sono prove che potrebbero confermare l’intento genocidario da parte di Israele nei confronti della popolazione della Striscia di Gaza».

 

Secondo il giurista, che ha osservato il contesto della frontiera con le lenti del diritto internazionale, sarebbe riduttivo presentare come crisi umanitaria il diniego degli aiuti ai civili. Il 26 gennaio scorso, infatti, la Corte internazionale di Giustizia, il più alto organo giudiziario delle Nazioni Unite, dopo la denuncia del Sudafrica ha indicato allo Stato d’Israele delle misure precauzionali da adottare, tra cui il fatto di favorire l’arrivo dei beni essenziali: perché il contrario rende plausibile l’accusa di genocidio. Sembra paradossale, o una palese sfida, ma da allora i camion di aiuti sono diminuiti e questo nonostante, un mese dopo, il Sudafrica si sia nuovamente appellato alla Corte chiedendo ulteriori misure e il cessate il fuoco immediato. La Corte non ha potere coercitivo, ma può richiedere l’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per fare sì che le sue indicazioni vengano rispettate.

 

Nella città di Rafah, Sami distribuisce quotidianamente agli sfollati circa 4.000 pasti, Se ne consuma uno al giorno, dopo il tramonto: l’iftar del calar del sole prima era un momento di festa e non un momento di fila per mangiare. «I nostri cuochi cucinano tutto il giorno senza sosta», racconta anche lui al telefono, cercando il punto dove prende meglio. Sfollato dalla sua Khan Yunis, completamente rasa al suolo dall’esercito israeliano, Sami lavora con l’Associazione di Cooperazione e Solidarietà (Acs) e con il supporto della World Central Kitchen a Rafah. La città, prima dell’ottobre 2023, ospitava circa 270 mila abitanti, oggi un milione e 700 mila. «Per attraversarla da un punto all’altro ci vuole una giornata intera», dice lui, per la densità di popolazione che ha cercato rifugio lì sotto il pericolo di un’invasione da parte israeliana. Ma il problema principale, aggiunge, è che «stanno si cucinano solo legumi, non ci sono né verdure né frutta né carne. Tutto quello che si trova nel mercato è solo cibo in scatole, non ritenuto salutare. Più dell’80% della popolazione è dimagrito, dai 5 ai 20 chilogrammi, oltre al problema della malnutrizione di bambini e mamme. E manca anche l’acqua potabile, mentre è impossibile la distillazione: non c’è elettricità dall’11 ottobre scorso, a Gaza. Negli ultimi giorni sono entrati solo tre camion con carburante da Kerem Shalom. Non è abbastanza nemmeno per gli ospedali».

 

Sami è inorridito dagli attacchi che coinvolgono i camion umanitari: «Si è costituito un comitato di famiglie per proteggere gli aiuti verso il Nord. Mentre queste persone aspettavano un convoglio, sono state bombardate. Ne sono morte 30. A Israele interessa che gli aiuti vengano saccheggiati prima che possano arrivare a destinazione». La beffa, conclude, è che, pure quando gli aiuti miracolosamente giungono a destinazione, si trovano poi medicinali scaduti o kit per il Coronavirus con mascherine e disinfettanti. Ma nella Striscia si muore sotto le bombe – finora ci sono stati oltre 32 mila morti da ottobre – o anche per una mancata dialisi.

 

L’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ha dichiarato che a tutti i suoi convogli di cibo la settimana scorsa è stato negato l’accesso. Finché, il 24 marzo, è arrivata la notifica che ogni futura spedizione di cibo nel Nord di Gaza sarà respinta. L’ultima volta che l’Agenzia aveva potuto portare alimenti era stata due mesi fa.

 

Un corridoio marittimo che Ue, Usa, Regno Unito ed Emirati Arabi sostengono, utilizzando come base il porto di Larnaca a Cipro, non eluderebbe i controlli israeliani. Mentre il piano degli Stati Uniti di costruire un porto temporaneo – tutti quelli di Gaza sono stati distrutti da Israele – richiede almeno due mesi di lavoro. Solo l’ong Open Arms con World Central Kitchen è riuscita a fare arrivare, sotto il controllo di Tel Aviv, duecento tonnellate di generi alimentari che trainava via mare, senza attraccare sulla Striscia.

 

Sugli aiuti via aerea che hanno provato a raggiungere la popolazione, invece, Karam risponde: «Giordani e americani hanno lanciato gli aiuti dal cielo al Nord; molte persone sono rimaste ferite, perché per un’operazione del genere è necessario un terreno vuoto che va da 500 metri a un chilometro. Oppure gli aiuti arrivano via mare e la gente deve nuotare per prenderli. È molto pericoloso. I camion, invece, sono già al Sud, bisognerebbe solo farli passare». O favorirne l’ingresso da Israele direttamente al valico del Nord. Per la prima volta in quasi sei mesi, il 25 marzo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu è passata la risoluzione per un cessate il fuoco nel mese di Ramadan, che è legalmente vincolante, con l’astensione degli Stati Uniti al voto. Chissà se finalmente servirà a proteggere la popolazione civile, cominciando dal non farla morire di fame.