Rachel Cusk, che con la sua trilogia (“Resoconto”, “Transiti” e “Onori”) ha messo in scena il più fondativo dei processi letterari - da un lato, l’esigenza di raccontare per capire la direzione e la ricchezza del nostro viaggio esistenziale e, dall’altro, la necessità di ascoltare la vita degli altri per ragionare di riflesso sulla propria - torna in libreria con “Coventry. Sulla vita, l’arte e la letteratura” (Einaudi), tradotto da Anna Nadotti e Isabella Pasqualetto. Una raccolta di saggi scritti in momenti diversi che nel loro insieme restituiscono la sua visione del mondo, da cui emerge un’instancabile esigenza di analizzare i movimenti del reale e della nostra complessità umana.
Nel saggio “La guida come metafora”, lei racconta con grande precisione la drammaturgia della strada. Come guidano le persone è sempre una metafora, un prolungamento del loro sé. Lei come guida?
«In effetti non guido molto e non so rispondere in modo preciso a questa domanda! Ma posso, però, spiegare perché ho deciso di usare la forma del saggio. È stato un modo per me di ripulire e riordinare la fiction. Avrei potuto scrivere un romanzo o un racconto sulla guida, ma ho la sensazione che la fiction si usi fin troppo per elaborare delle nozioni che invece farebbero meglio a rimanere come idee, come concetti, senza diventare oggetto di narrazione».
Non è insolito vedere le persone chiuse nelle auto che gesticolano, urlano, si arrabbiano come mai farebbero all’aperto. Questo discorso si connette a un altro saggio - “Sulla maleducazione” - in cui si mette in luce la tendenza contemporanea a esibire la maleducazione come forma di libertà dalla costrizione del linguaggio.
«Quello che ho cercato di fare spesso attraverso i miei saggi è stato quello di mettere in evidenza come gli umani siano fatti e agiscano, da un punto di vista strutturale, molto al di là della loro consapevolezza. Ci sono condizionamenti sociali e culturali che ci sovrastano, vanno oltre la nostra volontà e le nostre intenzioni. I comportamenti spesso non sono il prodotto puro della nostra identità. È sempre utile per uno scrittore analizzare le diversità delle prospettive, sondare tutte le strutture narrative nascoste nel nostro vivere quotidiano per capire meglio il mondo».
La letteratura può mai essere maleducata?
«Certo, la letteratura può essere maleducata. Molte cose che ho scritto, per esempio sulla maternità o sul divorzio, sono state lette come rudi, maleducate. Credo tuttavia che ci siano molti significati di maleducazione. Bisognerebbe distinguere tra l’essere sboccati e il dire la verità. La verità come la maleducazione può essere scioccante».
Cos’è Coventry?
«È una città inglese, ma c’è anche un’espressione anglosassone che recita: “Essere mandati a Coventry”. È quando le persone decidono volontariamente di ignorarti».
Chi viene mandato a Coventry può pensare di non esistere più. Ma questo non vale per gli scrittori. Penso a Walser o a Baudelaire. Molti scrittori hanno desiderato scomparire per sentirsi liberi. Per scrivere bisogna mandare sé stessi a Coventry?
«A volte scopriamo che la solitudine è un luogo dove possiamo sopravvivere. Non sei davvero scomparso, sei lì, tutto intero. In solitudine ho scoperto la mia consapevolezza, la mia voce, la mia individualità con una tale forza per cui non può in alcun modo essere distrutta dagli altri».
Per mandare sé stessi a Coventry è davvero necessario avere una stanza tutta per sé come predicava Virginia Woolf?
«Sono sempre stata sospettosa riguardo a questa idea della stanza. Se davvero avessimo una stanza tutta per noi forse non saremmo donne. Solo recentemente sono riuscita ad avere una stanza tutta per me, ma prima è stato altrettanto importante vivere negli spazi condivisi e occupare gli spazi maschili. Se si vuole scrivere una letteratura che abbia una prospettiva femminile devono valere le stesse regole che valgono nella vita reale e spesso per noi questo vuol dire non avere quella stanza. L’idea di isolamento rischia di non consentire l’espressione autentica di una voce che voglia comunicare l’esperienza delle donne».
Cos’è la letteratura femminile oggi?
«Io credo che le donne non siano arrivate alla fine della strada; anzi sembra quasi che abbiamo fatto dei passi indietro, mi appaiono ancora più fragili e minacciate. Per questo oggi l’idea di una letteratura femminile è ancora più rilevante che in passato. Molto di quello che ho scritto è nato dal rendermi conto che c’erano tantissime aree della nostra esperienza che rimanevano nelle zone d’ombra. Molte scrittrici hanno deciso di ignorare quelle zone d’ombra per inseguire valori maschili».
Nei suoi libri parla molto del materno nella sua dimensione chiaroscurale. È un compito della letteratura consegnare una visione della maternità più complessa rispetto a quello che ci hanno consegnato?
«Ho subito sentito la necessità di scrivere di maternità non sotto la lente della fiction, ma come esperienza assolutamente personale. La maternità è un’esperienza che accomuna molte donne; ma è sempre totalmente peculiare, attiene all’essere una persona specifica. Non potevo aspettare, è stata un’esigenza fortissima: ho scritto “Il lavoro di una vita” mentre ero incinta la seconda volta. Volevo cogliere e restituire la violenza di quell’esperienza».
Ho sempre avuto la sensazione che nella sua trilogia si mettesse in scena una sorta di “accoglienza”. La sua protagonista Faye ascolta le storie degli altri e le riporta senza dare giudizi. Volendo, avrebbe potuto anche essere un personaggio maschile?
«La trilogia è una costruzione del sé attraverso il riflesso che si coglie nelle storie degli altri. Per reggere narrativamente, doveva trattarsi però di un sé in pericolo o comunque marginalizzato. Ci sono degli uomini che si trovano in una posizione di marginalizzazione, ma non sono la maggioranza. Anche se di per sé l’idea della trilogia viene dall’Odissea, che ha un protagonista maschile, non penso che i miei tre romanzi funzionerebbero per raccontare l’esperienza convenzionale dell’uomo».
Che rapporto c’è tra i suoi saggi e la produzione di fiction?
«Per me la fiction è uno spazio artistico molto serio e voglio sempre essere sicura che il libro che mi appresto a scrivere sia necessario e nuovo, capace di rendere qualcosa di molto specifico. In questo senso la funzione dell’essay è come preparatoria: è uno spazio più libero per elaborare e far progredire il pensiero e nello stesso tempo condividerlo con i lettori. Per esempio, Natalia Ginzburg è diventata molto popolare nel mondo anglosassone e questo perché parla attraverso i suoi libri di fiction, ma incide anche fuori dalla narrativa. La sua voce è diventata più ampia, ha assunto un ruolo più esteso e deciso nel mondo della scrittura».
E infatti in un saggio lei parla a lungo di Natalia Ginzburg. Scrittrice amatissima, che ha sempre fatto letteratura innervandola con la vita autentica e trovando la propria voce solo dopo aver accettato sé stessa come donna. Cosa avete in comune?
«La voce di Ginzburg è estremamente rara, perché è una delle poche scrittrici che crede nella verità oggettiva. Riesce a togliere dalla pagina ogni sentimentalismo e ogni tratto di soggettività, nonostante le esperienze estreme che ha vissuto: la perdita tragica di suo marito, gli anni della guerra. Eppure, sono proprio quelle esperienze così drammatiche che hanno prodotto l’unicità della sua voce. Raccontare sé stesse e la propria esperienza con calore ma senza sentimentalismo è molto insolito, molto raro. È quello che cerco di fare anche io, partendo da un contesto diverso; sento molta vicinanza con Natalia Ginzburg da un punto di vista artistico e tecnico. Anche se, bisogna ammetterlo, la sua voce rimane inimitabile».