Reportage
La nuova vita del Vietnam tra moda e turismo. Con lo sguardo al futuro e un po' di nostalgia
Hanoi è una città colta, un po’ francese, romantica. E affollata di visitatori alla ricerca del suo passato. Ma il Paese di oggi è affacciato sul domani
Forse sono le sue gambe, snelle sotto l’abito bianco corto davanti, a fermare le auto. O il gesto dolce con cui lui la fa piroettare due, tre volte, sulle strisce all’incrocio tra le vie Ngo Quyen e Trang Tien. Il traffico folle di Hanoi per una volta si arresta, distratto da quel piccolo strascico, l’accenno di velo. Da quella coppia giovane che danza per strada. Oggi sposi.
Non è un caso che siano venuti qui, in questo angolo della città: uno scorcio di Indocina in una capitale sempre più moderna, uno sfondo affascinante per un momento perfetto. L’Hotel Metropole è a un passo, con le imponenti facciate bianche e i colonnati, i curatissimi risciò con capottina verde per turisti dai desideri vintage, le ragazze del personale in candidi ao dai (abiti tradizionali), il Bamboo bar e i suoi ristoranti francesi. Ma quel languore lo trovi anche al Caravelle, che nel sito si definisce “in the heart of Saigon”, mica Ho Chi Minh City, o all’hotel La Residence a Hue, il cui corpo centrale fu costruito nel 1930 come parte della residenza del Governatore francese.
L’Indocina è una fantasia, oggi, in Vietnam. Una nostalgia forse, un’attrazione turistica di sicuro, soprattutto ad Hanoi che ne fu il cuore: non a caso, quando si girò la versione del 2002 di “Un Americano tranquillo”, tratto dal romanzo di Graham Greene, il set fu ambientato prevalentemente a Hanoi, nonostante la storia originale si svolga a Saigon. Ad Hanoi il richiamo all’Indochine è continuo, la città è colta e un po’ ancora si pensa francese, mentre a Ho Chi Minh City i riferimenti sono più americani. I vietnamiti di nuova generazione metabolizzano tutto, mangiano Banh mì, cioè baguettes, spalmate di Vache Qui Rit, e a noi rivendono un sogno esotico.
È romantica, Hanoi. Languida la sera, con le luci dorate e il Quartiere Vecchio che pullula di caffè e migliaia di giovani sui seggiolini minuscoli simbolo della città. Per molti questo Paese è ancora una foto in bianco e nero - la guerra, il napalm - ma non per questi ragazzi, nati dopo il 2000: di quella storia, finita nel 1975, sanno meno di noi. Si accalcano davanti alle vetrine di Uniqlo, appena aperto, testano il loro inglese con i turisti che invadono Hanoi, soprattutto nel Quartiere delle 36 Strade. I turisti che si incantano davanti a lattonieri, mercerie, negozietti di bottoni e finte spille Chanel, noce moscata e cannella, anice stellato e corteccia di bambù. Dentro al wet market si turbano davanti alle tartarughe destinate al brodo, poi tirano dritto a caccia di altri stupori.
Ce ne sono, e non pochi. Per esempio, l’esistenza di una moda vietnamita. «Sta succedendo qualcosa», racconta Douglas Maclennan, della sede di Hanoi del London College for Design and Fashion. «I vietnamiti hanno manifattura, gusto e cultura. E una tradizione che sanno reinventare». Così tra InterContinental Hotel e Palazzetto dello Sport Quan Ngua la moda vietnamita diventa Aquafina Vietnam International Fashion Week. Tema, “Shaping the future”, dar forma al futuro.
Con calma, però. La prima sera il ritardo supera l’ora. Che fretta c’è? Al Palazzetto arrivano gli influencer, giovani che si ispirano alle star del K Pop senza ancora averne lo charme, le ragazze belle come fiori. Fa spettacolo lo stesso pubblico: in prima fila una signora in nero tipo Morticia Addams; una fanciulla con abito che pare tradizionale, in realtà modello di Cao Minh Tien che omaggia le popolazioni del Nord; una bimba fin troppo cool, con mamma coordinata; Áo dài e abiti da sera, tacchi infiniti e zeppe multipiano.
Apre le danze Vu Viet Ha. Sale sul palco e dipinge di blu i suoi modelli vestiti di bianco: poesia, veli, creature leggere. Ogni abito è un pezzo unico, Vu usa tessuti ricavati da fibre naturali, come quella d’ananas, che mischia a seta. Vengono dal Nord, SaPa, HaGiang, LàoCai, i territori dei Hmong: li fa ricamare e tingere con colori naturali come l’indaco. Vende a mogli di politici e ambasciatori: pezzi unici da 3, 4, 5mila dollari, che richiedono mesi di lavoro. I clienti, da Canada, Usa, Germania, India, Singapore, Giappone, aspettano. La bellezza vuole tempo.
«In Vietnam alcuni marchi sono prêt-à-porter», spiega Tran-Nguyen Thien-Huong, editrice di Harper’s Bazaar Vietnam, «altri couture. Sfilano insieme, quello vietnamita non è ancora un mercato della moda maturo». La donna che vuole farlo crescere è Madame Trang Le. Fondatrice e presidente della Vietnam International Fashion Week, 48 anni, due figli di 20 e 18 , divorziata. «Devi sacrificarti per farcela, ma noi vietnamite lavoriamo moltissimo. La moda mi ripaga con le emozioni. Il mio è stato un lungo viaggio, sono umile, voglio imparare. Noi sappiamo da dove veniamo». Sa bene anche dove vuole arrivare. «Sogno di far crescere la nostra industria. Abbiamo un solido Made in Vietnam (facciamo manifattura per molti marchi stranieri), vorrei evolvesse in Made by Vietnam: creazioni vietnamite. Abbiamo materiali splendidi, forte impronta francese, grande storia che deve ispirarci. Attraverso la moda noi dobbiamo educare e crescere».
David Pirnia, buyer d’origine iraniana basato a Londra, segue soprattutto due marchi, Tiny Ink e IHF. Si vendono bene nei Paesi musulmani, spiega, per il Ramadan: sono perfetti per stare coperte con eleganza. Ciò che vediamo sfilare trova subito compratori, continua Trang Le: dopo lo show è venduto al 70, 80 per cento. «See Now Buy Now, lo vedi e lo compri. Nessuno qui ha voglia di aspettare sei mesi per soddisfare desideri. Siamo un mercato da 100 milioni di persone, il 13esimo nel mondo, il secondo del Sud-est asiatico: per ora ci basta lavorare sul locale, grande e giovane».
Come Huynh Tu Anh, tuanh.mdl su IG. 21 anni, modella da un anno e mezzo, decisione presa in autobus: «Devo fare qualcosa di speciale». Si presenta al casting per The Face of Vietnam, vince. «Mamma non la smetteva più di piangere, sono la prima modella della famiglia. Loro mi sognavano dottore, all’inizio erano arrabbiati, ora mi sostengono tanto». Ora il suo volto da dea è in copertina su Harper’s Bazaar.
Qui i corpi sono biografie. Nei locali e sui rooftop degli hotel più belli di Hanoi vedi ragazze che sembrano nate per diventare modelle, altissime, visi superbi, zigomi da divinità. Ti allontani di poco dalle grandi arterie alberate e trovi il mondo di ieri: vicoli angusti, motorini su cui viaggiano anche quattro persone, ceste e mercati, donnine rattrappite con bilancieri e cappellini a cono. Una cosa ce l’hanno in comune, donnine e dee: sono la spina dorsale del Paese, visitare il Museo delle Donne Vietnamite a Ly Thuong Kiet street per farsene un’idea. Hanno in mano la vita e gli affari delle famiglie.
Pensa a loro, forse, Phan Dahn Hoang, stilista che inonda la passerella di verdi e senapi, sensuali abiti sottoveste: la sua cliente è una giovane manager che viaggia e sfoglia riviste internazionali, ma la sera diventa sirena. La ragazzina in prima fila non perde una battuta, i tacchi alti come quelli della mamma, altrettanto concentrata. Su tutto vigila, dall’alto dello Sport Complex Quan Ngua, il ritratto dello Zio Ho, come qui chiamano il venerato Ho Chi Minh. Il suo Mausoleo non è lontano, chissà se ci si sta rivoltando dentro.