Personaggi
La partita di Viktor Orbán per diventare il leader dell'Europa reazionaria
Da Kiev a Mosca, da Pechino a Mar-a-Lago, il premier ungherese incontra i nemici dell’Ue da presidente di turno. Mentre Bruxelles si smarca, lui ne scardinai principi fondanti dall’interno. Perseguendo un programma che fa di autoritarismo, sciovinismo e xenofobia i propri punti di forza
Viktor Orbán è riuscito nell’impresa di incontrare tutti i nemici dell’Unione europea da presidente di turno dell’Ue stessa. In tre settimane l’autoritario primo ministro ungherese ha percorso il globo da una parte all’altra per volare a Kiev, Mosca, Pechino, New York e in Florida, prima di rientrare trionfalmente a Budapest. A eccezione del summit della Nato a New York si è trattato sempre di visite a sorpresa, o comunque poco pubblicizzate, che hanno costretto i leader europei a rimproverarlo a posteriori, palesando ancora di più l’incapacità di Bruxelles di bloccare le ambizioni solitarie del premier magiaro e contribuendo a rafforzare l’immagine di Orbán come ribelle. Tuttavia, nonostante le mosse siano state magistralmente congeniate sul piano mediatico, il capo del governo di Budapest si trova ora a dover fare i conti con le istituzioni europee, che, lontano dai riflettori, non gli perdoneranno la sua tracotanza. Dall’esito di questo scontro si potranno determinare anche molti rapporti di forza interni all’Ue nei prossimi mesi.
Ma andiamo con ordine. Il primo luglio è iniziato il semestre di presidenza di turno ungherese dell’Ue. Tale meccanismo per cui ogni Stato membro, per quanto piccolo e a prescindere dalla sua importanza, presiede per un periodo le riunioni delle istituzioni europee esiste dal 1958. La carica di per sé non conferisce particolari poteri decisionali, ma fu istituita per trasmettere l’idea che si trattasse di un’unione tra pari e non di una struttura oligarchica. Con una popolazione di poco meno di 10 milioni di abitanti, un Pil pari all’1,5% circa di quello totale dell’Ue, nessuno sbocco sul mare e un esercito di basso livello (17° in Ue per la spesa per le forze armate), l’Ungheria sulla carta non è di certo un Paese che può permettersi fughe in avanti rispetto alle potenze di Germania, Francia o Italia, che, nell’ordine, sono i primi tre Stati dell’Eurozona per Pil. Né tantomeno potrebbe permettersi di dialogare alla pari con giganti del calibro di Russia, Cina o Stati Uniti. Ma, e qui sta il punto, Orbán non vuole comandare direttamente, sa che non potrebbe mai permetterselo con la piccola Ungheria alle spalle. Al contrario, persegue un progetto politico chiaro che mira a scardinare i meccanismi (e, si sarebbe detto una volta, i principi) fondanti dell’Ue dall’interno. E per farlo usa concetti come la pace, asservita, tra le sue labbra, all’unico scopo di raccogliere più consensi possibile. D’altronde, nonostante la logica dica che è impossibile considerare pacifista un leader xenofobo, omofobo, autoritario e compiaciuto del suo potere fino a teorizzare la «democrazia illiberale», censore dell’informazione e nazionalista, oggi è così. La strategia politica di Orbán gli ha permesso di guadagnarsi molte simpatie anche tra chi non corrisponde al profilo di estremista di destra appena tracciato, ma è contrario alle politiche dell’Ue e della Nato. Il problema, semmai, è che tra il pacifismo di facciata e interessato di Orbán e il crescente bellicismo dell’Alleanza atlantica non ci sono voci d’opposizione altrettanto carismatiche.
A partire dal primo viaggio a sorpresa a Kiev, il 2 luglio, Orbán ha scritto su X che si trattava di una missione con il focus della pace in Ucraina. L’incontro con Volodymyr Zelensky aveva fatto pensare a una sorta di presa di responsabilità. «Il leader più filorusso d’Europa vola a incontrare il presidente ucraino», titolavano i giornali. Si è trattato di un incontro freddo, il premier magiaro ha portato sul tavolo la questione delle minoranze ungheresi in territorio ucraino e ha chiesto a Zelensky di impegnarsi per la pace. Quest’ultimo ha risposto seccamente che senza armi non ci sarà alcuna pace, ma solo la dissoluzione dell’Ucraina, e ha invitato il collega a schierarsi «dalla parte giusta della storia». Nulla di fatto. Se non fosse che alla fine della stessa settimana (5 luglio) Orbán era a Mosca, ufficialmente per continuare la sua ricerca di pace. Vladimir Putin gli ha risposto che non ha alcuna intenzione di abbandonare i territori ucraini occupati e il discorso si è più o meno esaurito così. Poi il 7 Orbán è atterrato a Pechino da Xi Jinping, ma il leader cinese ha solo ribadito altisonanti frasi diplomatiche senza prendere minimamente in considerazione le premesse della «missione di pace n° 3». Al vertice di Washington per i 75 anni della Nato il premier ungherese è stato trattato come un sorvegliato speciale, forse l’amministrazione di Joe Biden sapeva già che non avrebbe aspettato neanche la fine del terzo giorno per volare nella residenza in stile “Scarface” di Donald Trump a Mar-a-Lago, in Florida. Qui, l’exploit. Tra foto di aquile dorate, vini marcati «Trump» e copertine del Times incorniciate, Orbán si è lanciato nell’adulazione più entusiastica: «È stato un onore visitare il presidente Trump. Abbiamo discusso i modi per arrivare alla pace (in Ucraina, ndr). La buona notizia del giorno: risolverà il problema».
Al di là della passione per il tycoon, le visite di Orbán hanno rappresentato un serio problema per la politica estera dell’Ue. A partire dall’evidente dicotomia tra le condanne da parte del cancelliere tedesco Olaf Scholz o del presidente francese Emmanuel Macron a Putin e le strette di mano calorose tra il primo ministro ungherese e il capo del Cremlino. La questione che hanno sollevato tutti i politici europei è riassumibile nella formula: «A nome di chi parla? Chi l’ha autorizzato?». Ufficialmente, nessuno. Ma non aveva neanche bisogno di farsi autorizzare. Il punto è che quella «postura istituzionale» che auspicavano a Bruxelles è solo un’illusione, Orbán è cresciuto politicamente negli ultimi anni dell’Urss in una delle dittature satellite dell’Est Europa e ha imparato alla perfezione come approfittare delle divisioni degli avversari politici, quando fare la voce grossa e quando presentarsi come la colomba della pace. A ciò si unisca il senso di rivalsa contro le élite cittadine che fin dai tempi dell’università accompagna questo politico venuto dalla campagna. Quelle élite ora sono a Bruxelles e l’astuto leader populista le appella con la stessa retorica aggressiva della sua prima campagna elettorale in Ungheria. Quando è a Budapest. Negli incontri ufficiali non li chiama mai «dittatori» o «esponenti delle lobby che vorrebbero consegnare l’Europa all’Islam e a Soros».
In estrema sintesi si potrebbe dire che Orbán ha capito dove sono le faglie del potere europeo, mentre i vertici del Vecchio Continente s’illudono ancora di poter controllare Orbán con la minaccia del congelamento dei fondi strutturali che l’Ue elargisce agli Stati membri. Quella leva si è rotta, ora per Orbán è il momento di accreditarsi come il leader di un’Europa ribelle, ma che in realtà andrebbe definita reazionaria. Un’Europa che dice di sfidare i «poteri forti», ma che fa dell’autoritarismo, dello sciovinismo, della xenofobia i propri punti di forza. E in questo compito non è affatto solo. Molti dei politici populisti di destra, confluiti nel nuovo schieramento denominato «Patrioti per l’Europa», in passato hanno dimostrato grande simpatia per Putin e non lo nascondono troppo neanche oggi, anche se non indossano più magliette con l’effigie dello zar. Si tratta di 80 europarlamentari provenienti per la maggior parte dal Rassemblement National di Marine Le Pen (30 membri, partito di maggioranza), 11 ungheresi di Fidesz (il partito di Orbán), 8 leghisti italiani e diversi altri gruppi minoritari. In questa neonata compagine di vecchi estremisti, Orbán sta cercando il più possibile di accreditarsi come punto di riferimento continuando a fare ciò che ha sempre fatto, ma con tutti i riflettori puntati su di lui. E la vera domanda è: per quanto tempo Bruxelles lo lascerà agire in questo modo? La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha deciso che non invierà figure apicali, ma solo «alti funzionari» alle riunioni informali del Consiglio europeo che, tradizionalmente, si tengono nel Paese presidente di turno. Inoltre, la consueta «visita del Collegio alla presidenza non avrà luogo».
Allo stesso tempo il premier magiaro vuole continuare a ricevere il gas russo, che Budapest non sanziona, a rinforzare l’alleanza strategica sul nucleare con Rosatom, la compagnia atomica russa che di recente ha lanciato un progetto per allargare la centrale nucleare di Paks, nell’Ungheria centro-meridionale. Senza contare le mire, più o meno malcelate, sui quasi 200 mila discendenti ungheresi che vivono nelle regioni confinanti con l’Ucraina e ai quali Orbán ha fornito il doppio passaporto. D’altra parte Budapest mira ad accreditarsi come hub per i commerci cinesi in Europa centrale e, magari, a diventare spacciatore di merci cinesi sottoposte a dazi attraverso triangolazioni e nazionalizzazioni. Poco importa se nell’ultima riunione della Commissione europea si è deciso di ufficializzare i dazi sulle auto elettriche cinesi, se a Bruxelles si parla dei pericoli per la cyber-sicurezza rappresentati dalle aziende di Pechino e nell’ultimo vertice Nato si è ribadita la «minaccia cinese per la stabilità del mondo».