Nei campi lungo il confine con Israele ci sono migliaia di persone scappate dalla propria casa che arrivano soprattutto da Siria e Palestina. Vivono in condizioni precarie. Che con l'intensificarsi del conflitto a Gaza peggiorano di giorno in giorno

Quando Israele dopo nove mesi ha fatto sapere che avrebbe potuto cambiare le regole della guerra, Hezbollah aveva pubblicato un lungo video in cui si vedevano immagini aeree del porto della città di Haifa – a una trentina di chilometri dal confine con il Libano e la terza più grande del Paese – assieme alla dimostrazione della capacità di penetrare le difese aeree del vicino. L’incertezza di quello che sarà il futuro del Medio Oriente si scrive anche lungo il confine meridionale del Libano, la cui complessità è scritta in decenni di contrasti, conflitti e sopravvivenza.

 

Hussein al-Ali ha vent’anni, è siriano e vive assieme ai genitori in una tenda allestita nella Valle della Bekaa, il territorio fertile a trenta chilometri a Est di Beirut, vicino al confine tra il Libano e la Siria. Con la sua famiglia è arrivato nel 2013, due anni dopo che le proteste della primavera araba a Damasco si sono trasformate in una feroce guerra. Lui è anche una delle persone che sono state costrette con la forza a lasciare il Libano mentre cresce un sentimento anti-siriano che prende sempre più forza tra le preoccupazioni sulla sicurezza e l’impatto economico sulla classe operaia libanese: la mattina di un sabato della scorsa primavera è stato fermato dall’esercito che lo ha accompagnato ad Al Masnaa, duecento metri oltre il confine, con un invito a non ritornare. 

 

«Abbiamo perso i nostri documenti assieme al nostro Paese. Quando sono stato deportato perché non sono in regola, mi hanno mandato da un giudice che mi ha dato un foglio in cui si diceva che ero obbligato a prestare servizio militare entro quindici giorni dal mio ingresso nel Paese. Da lì ho camminato per quattro giorni verso quello che era il mio villaggio vicino ad Aleppo. Ci sono dovuto andare perché era il punto in cui dei trafficanti mi avrebbero preso e riportato indietro, ma non ho potuto, tra tutti quelli che ho attraversato, capire con certezza quale fosse il mio: tutte le nostre case sono state distrutte, dove c’era la nostra, ora ci sono macerie», racconta. Se gli viene domandato se ha mai pensato di tornare in Siria risponde che non saprebbe per fare cosa: non c’è sicurezza, non c’è vita, non c’è lavoro, non c’è cibo, non c’è neppure un rifugio a cui tornare.

 

Dopo tredici anni di crisi, i bisogni umanitari per i siriani sono sempre più significativi: circa sette milioni di cittadini rimangono sfollati nel loro Paese, mentre oltre 5,5 milioni sono rifugiati nei cinque confinanti. Secondo le stime del governo, il Libano ne ospita da solo almeno 1,5 milioni su una popolazione totale di oltre 5 milioni, fatto che lo rende il posto con la maggiore popolazione di rifugiati pro capite nel mondo e facendo di quella siriana una crisi libanese.

 

Palestinesi rifugiati nel campo di Burj el-Barajneh protestano a Beirut

 

Pensare al Libano come crocevia di popoli è nella sua storia: i maroniti che lasciarono la Siria, i curdi che abbandonarono la Turchia, gli ebrei scappati dall’Egitto, gli armeni per salvarsi dal genocidio, poi i palestinesi, per ultimi i siriani. «Nella filosofia di chi per primo negli anni Venti aveva cominciato a pensare a quello che sarebbe diventato il Libano, c’era la visione che lo vedeva come il rifugio delle minoranze, il luogo dove avrebbero potuto sentirsi al sicuro. È parte della sua identità e certamente ha creato la sua apertura, la sua diversità», spiega Paul Salem, senior scholar ed ex presidente e amministratore delegato del Middle East Institute. Il Libano è il Paese in cui il sistema politico si fonda su un’unica al mondo e matematica divisione delle cariche su base religiosa e dove dalla Costituzione vengono riconosciute diciotto confessioni, la cui spartizione in seggi fu decisa da un censimento degli anni Trenta, quando i cristiani erano la maggioranza. Quando nel 1948 furono aperte le porte ai palestinesi costretti ad abbandonare le proprie case, le persone si stabilirono nel Paese e poi nei campi profughi allestiti per loro, come quello di Shatila, nella capitale Beirut.

 

Vive ancora lì Mohammad, in quella che fu la casa di suo nonno scappato dal villaggio di al-Khalisa – oggi Kiryat Shmona – durante la prima Nakba, che di fronte alle immagini trasmesse dai ricordi familiari della Palestina dice: «Sono le mie persone che stanno venendo uccise, non solo ora, ma negli ultimi settantacinque anni. Penso che la libertà venga con un prezzo, con il sangue e che non arriverà con pacifici negoziati perché non è mai successo prima. Giusto sarebbe che l’occupazione delle nostre terre terminasse, le hanno prese con la forza e solo con la forza le riavremo indietro. Questa terra non avrebbe dovuto essere promessa a nessun altro, perché era nostra». Quegli anni non furono facili e poi seguì la guerra civile che ancora oggi si vede per le strade di Beirut. Anche nel 2011 con il conflitto in Siria, il Libano ha aperto le sue porte, ma già dall’inizio il governo aveva deciso che non sarebbe stato istituito ufficialmente nessun campo profughi né che sarebbe stato riconosciuto loro lo status di rifugiato: solo una serie di insediamenti informali per non ripetere quello che era accaduto sessant’anni prima.

 

Nel mentre il Paese è stato investito da una delle peggiori crisi economiche mai registrate, poi l’esplosione al porto di Beirut, la mancanza dei beni primari, l’inflazione a tre cifre, la svalutazione della moneta. «La questione importante per il Libano è che i profughi ci sono e che sono lì da tanto tempo e chissà per quanto. La quasi disperata scelta libanese di provare a riportare molti di loro in Siria non è una strada percorribile, perché lì le condizioni non sono tali da poter riaccogliere nessuno: il Paese è in una situazione economica disastrosa, peggiore di quella del Libano, molti dei villaggi e delle città da cui provengono le persone non esistono più, il regime non li vuole davvero e può a malapena governare quelli che sono rimasti», prosegue Salem. In uno stato in crisi come il Libano, i profughi rappresentano un peso – su infrastrutture, istruzione, acqua, sanità – ma nessuna delle sue maggiori difficoltà è stata causata da loro: la classe politica non è stata capace di organizzare il Paese, che continua ad affidarsi a un governo ad interim da due anni, in cui nel Parlamento non emerge nessuna maggioranza e dove è risultato impossibile dalla fine del 2022 eleggere un nuovo presidente della Repubblica.

 

Il fumo sale dopo il bombardamento israeliano del villaggio di Khiam nel Libano meridionale

 

E se il Nord e il confine orientale sono stati fiaccati dalla questione siriana, la guerra nella Striscia di Gaza ha riacceso il confine tra il Sud del Libano e il Nord di Israele, dove sono stati quotidiani gli attacchi reciproci tra Hezbollah e lo Stato ebraico, minaccia di una guerra più ampia: dal lato libanese gli abitanti hanno volontariamente cominciato a lasciare le proprie case per fuggire dai colpi di Israele e dal fosforo bianco, così come evacuazioni sono state organizzate nelle città israeliane di frontiera. In Libano questo ha creato un’ondata di almeno 90.000 rifugiati interni che sono stati ricollocati in tutto il Paese. 

 

Nella municipalità di Tiro, città meridionale a sbocco sul mare, ne sono arrivati almeno 27.000 che ora vivono in appartamenti o rifugi e che hanno fatto delle classi di alcune scuole il loro nuovo alloggio. Nella seconda C della scuola “Hassan Farran” di Tiro c’è Aina con due dei suoi tre figli: accatastati su un lato della parete ci sono i banchi che ora sono armadi e pensili da cucina, sulla lavagna si vede il disegno di una casa, è la loro a Naqoura, che hanno abbandonato di fretta nella notte tra l’8 e il 9 ottobre nel ricordo della guerra del 2006 tra Israele e Hezbollah. «La città non ha più spirito, è tutto finito. Seguiamo con preoccupazione quello che accade al confine e ogni volta che sentiamo di un attacco, ci chiediamo se a essere stato colpito è qualcuno che conosciamo. Intorno tutti vivono una vita normale, mentre la nostra si è capovolta e la cosa peggiore è che non ci è dato sapere quando e se sarà possibile ritornarci».