Al primo turno delle presidenziali l'affluenza è stata la più bassa della storia della Repubblica islamica. A boicottare le elezioni sono soprattutto le donne che vogliono costruire un Paese che rispetti i loro diritti

Queste elezioni sono una farsa. Un nuovo presidente non cambierà il nostro futuro. Non ho votato e nessuno tra chi conosco l’ha fatto». A parlare, senza usare mezzi termini, è Azadeh (nome di fantasia), una donna iraniana stanca di sopportare i soprusi del governo. Non è un’attivista ma quando se la sente gira per le strade della capitale, Teheran, senza velo. Con l’hijab arricciato sul collo e il capo scoperto. Come lei tante altre cittadine. Che hanno paura ma non perdono la voglia di costruire un Paese che le rispetti, neppure dopo la nuova ondata di repressione, iniziata lo scorso 13 aprile, proprio il giorno in cui la potenza leader dell’Asse della resistenza ha lanciato più di 300 tra droni e missili verso Israele. In quelle stesse ore, per seguire gli ordini del clero sciita che comanda il Paese, la polizia morale è tornata a pattugliare le strade delle principali città, alla ricerca di donne senza velo: «Come se fossimo in guerra».

 

Proprio come Azadeh sono molti i cittadini che hanno deciso di boicottare le elezioni presidenziali indette dopo la morte di Ebrahim Raisi in un incidente in elicottero vicino al confine con l’Azerbaijan, il 19 maggio. Tanto che l’affluenza al primo turno, del 28 giugno, è stata la più bassa mai registrata da quando la Repubblica islamica ha preso forma nel 1979. Ha votato circa il 40 per cento degli oltre 61 milioni aventi diritto: in 10,4 per l’unico candidato riformista in lizza per la presidenza Masoud Pezeshkian, cardiochirurgo ed ex ministro della Salute, 9,5 milioni le preferenze espresse per Saeed Jalili, il conservatore più intransigente tra i quattro candidati ammessi al primo turno. Più di un milione sono le schede risultate nulle, evidenza che c’è anche chi si è sentito costretto ad andare alle urne ma non ha rinunciato a esprimere il proprio dissenso nella penombra della cabina elettorale. «È una protesta semplice, a basso costo personale e efficace. Ora tutti gli attori del potere sanno che l’opinione pubblica è contro di loro. Si tratta di un fallimento storico per la leadership della guida suprema Ali Khamenei, che anni fa, quando la partecipazione media alle elezioni iraniane era del 70 per cento, disse – in un discorso in cui criticava i Paesi occidentali – che una partecipazione del 40 per cento alle elezioni è una vergogna per quelle nazioni», spiega Mostafa Khosravi, giornalista e fact-checker iraniano che dall’Italia lavora per importanti media in lingua persiana come Bbc e Iran International.

 

«I giochi sono già stati fatti, al governo non interessa niente del nostro voto. Per loro ha importanza soltanto far vedere al mondo che in Iran si svolgono elezioni regolari. Ma è una bugia. Queste elezioni sono una farsa», ribadisce, infatti, Azadeh con un tono che non lascia spazio a chiarimenti. È convinta che tra i pochi che hanno votato, tanti siano stati pagati o costretti con la forza: «Succede soprattutto ai più poveri. Bastano pochi soldi o qualche intimidazione per obbligarli. È una prassi a cui siamo abituati».

 

A lanciare per prime l’appello per il boicottaggio delle presidenziali sono state le madri dei manifestanti uccisi durante l’ultima ondata di proteste guidata dal movimento “Donna, vita, libertà”, che ha fatto seguito all’uccisione di Mahsa Amini, il 16 settembre del 2022, a opera della polizia morale. Nel 2023 in Iran le condanne a morte sono state 834, cresciute del 43 per cento rispetto all’anno prima: «Non smetteremo di cercare giustizia finché non avremo il diritto di processare e punire i criminali che hanno giustiziato e ucciso i nostri figli», hanno scritto le madri in protesta in un comunicato che ha fatto il giro del mondo: «Queste elezioni sono un circo». A raccogliere l’appello al boicottaggio e facilitare la sua diffusione in loco e sul Web sono stati in milioni. Tra questi anche le più conosciute attiviste per i diritti non solo delle donne ma di tutta la società civile iraniana: «Mi rifiuto di partecipare alle elezioni illegali di un governo repressivo e illegittimo», ha detto Narges Mohammadi, premio Nobel per la Pace detenuta nel carcere di Ervin. «Non dimenticate, il governo che non vi permette di controllare ciò che vi mettete in testa, non vi permetterà mai di controllare la vostra testa. Scegliere tra uno schiavo “cattivo” e uno schiavo “peggio” significa accettare la schiavitù islamica. Le donne coraggiose dell'Iran sono abbastanza intelligenti da non farsi ingannare da questi ciarlatani dei giochi elettorali», ha scritto sui social la giornalista Masih Alinejad.

 

Come spiega, infatti, Khosravi, le elezioni per essere rappresentative della volontà del popolo devono essere libere e competitive. In Iran non lo sono: «Ad esempio, solo uomini di religione sciita che credono nella leadership della Guida suprema Ali Khamenei e nel Velayat-e Faqih possono candidarsi. Le donne, che sono metà della società, non hanno il diritto di candidarsi, così come altre ampie fasce di popolazione. Un consiglio di 12 membri, il Consiglio dei Guardiani, è responsabile della convalida delle candidature: qui, ci sono 6 ayatollah tutti scelti da Khamenei e 6 giuristi nominati dal capo del sistema giudiziario, che è a sua volta un rappresentante del leader iraniano. Viste le condizioni, una grande parte della popolazione ritiene che la scelta del presidente sia nelle mani del Consiglio dei Guardiani e che il governo voglia utilizzare i voti solo per costruirsi una facciata internazionale».

 

Per questo anche se sarà il riformista Masoud Pezeshkian il nuovo presidente della Repubblica islamica dell’Iran per la società civile probabilmente cambierà poco. A modificarsi, anche se solo in parte, potrebbero, invece, essere gli equilibri di politica estera: uno sguardo più aperto nei confronti dell’Occidente potrebbe favorire la riapertura dell’Accordo sul nucleare del 2015 e ridurre l’isolamento di Teheran, causato dalle sanzioni, che ha portato un evidente declino delle condizioni di vita del popolo iraniano.