A parlare è Atef Abu Saif, scrittore, dal 2019 ministro della Cultura dell’Autorità Nazionale Palestinese. Durante gli 85 giorni nella Striscia, sotto le bombe, ha scritto "Diario di un genocidio"

Nessuno può davvero dire di aver lasciato Gaza. Non si sfugge a un’esperienza come questa. Per 85 giorni vedi la morte, tocchi i corpi, perdi decine di membri della tua famiglia, vieni ferito, patisci la fame, non trovi acqua da bere. E poi ho ancora la mia famiglia lì. Ci vivi dentro e vive dentro di te. Soprattutto perché la guerra non è ancora finita». Così racconta Atef Abu Saif, scrittore e giornalista. I suoi libri sono tradotti in tutto il mondo, le sue corrispondenze pubblicate da The New York Times, The Guardian e altre testate. Molto vicino al partito Fatah di Abu Mazen, dal 2019 è ministro della Cultura dell’Autorità Nazionale Palestinese.

 

Il 5 ottobre scorso, due giorni prima dell’attacco di Hamas contro Israele, si era recato a Gaza City, con il figlio, per andare a trovare la sua famiglia.  Ne è uscito solo 85 giorni dopo, nei quali ha tenuto un diario, che è diventato un libro che Fuoriscena ha ora tradotto e pubblicato in Italia con il titolo “Diario di un genocidio”. «Solo ieri ho saputo che una signora e sua figlia che vivevano nello stesso edificio in cui ho vissuto io per quindici anni sono state uccise mentre si trovavano vicino a una scuola. Non sono morte, sono state uccise. Ogni giorno faccio cento telefonate, dopo i bombardamenti, per accertarmi che siano ancora vive le persone che conosco. Anche i morti non hanno tregua: la maggior parte delle persone non è ancora sepolta, come mia cognata, che è sotto le macerie da 280 giorni, dalla prima settimana di guerra, con suo marito e i suoi due figli. E lo stesso vale per il mio amico Salim Nafar, uno dei più grandi poeti palestinesi contemporanei, che è ancora sotto le macerie con la sua famiglia. Il mio corpo ha lasciato Gaza, ma io sono ancora là». Quali sono le polaroid di questa guerra che hanno ispirato questo diario?

 

«Due in particolare, la prima è quella di mio figlio, Yasser, che cerca sua zia e la sua famiglia tra le macerie della loro casa bombardata. Era notte, siamo corsi sul posto la mattina presto, io e lui. E lui gridava i nomi di sua zia, di suo zio, dei suoi cugini. Ha 15 anni, gridava per farsi sentire da loro, mentre scavava con le mani tra i detriti. Alla fine è crollato, si è messo a piangere. E l’altra immagine è quella del mio amico Adam, che ho raccontato nel libro. Dopo un bombardamento abbiamo scavato assieme, per trovare superstiti, ma per lui c’era l’orrore di trovare il corpo di suo figlio». Alla fine, dopo molti ripensamenti che Abu Saif racconta con precisione e con la volontà di tenere memoria e documentazione di quello che è accaduto a Gaza dopo il 7 ottobre, lui e il figlio sono riusciti ad andare in Egitto e - via Giordania - tornare a Ramallah, dove vive e lavora. Che situazione ha trovato?

 

«Anche in Cisgiordania non è semplice. L’esercito israeliano e i coloni hanno intensificato gli attacchi contro la popolazione palestinese dal 7 ottobre. Negli ultimi 9 mesi sono stati uccisi più di 500 palestinesi in attacchi quotidiani in Cisgiordania. Si impiegano ore per spostarsi, i posti di blocco sono chiusi. Mia moglie e i miei figli non hanno mai lasciato Ramallah dal 7 ottobre. Perché magari si passa, ma ci vogliono sei ore, e si potrebbe restare bloccati. Mentre c’è un genocidio a Gaza, la pulizia etnica continua in Cisgiordania, distruggendo case, sradicando gli alberi, uccidendo persone, arrestandone circa 6mila dal 7 ottobre. E la situazione economica è sempre più disastrosa. Le autorità israeliane hanno tagliato le entrate del governo palestinese, oltre a ribadire in questi giorni che non esisterà mai alcuno stato di Palestina, uccidendo l’idea stessa di pace».

 

A parlare è uno strenuo oppositore di Hamas, che ha subito anche un’aggressione fisica da esponenti del partito religioso. Una voce che smentisce il racconto di una Gaza tutta per Hamas. «Non è così e non lo è mai stato. Anche quando Hamas vinse le elezioni, nel 2006, ottenne il 43%, mentre il partito politico avversario ottenne il 42%. Molti di loro sono critici nei confronti di Hamas,  soprattutto quando si tratta di diritti specifici, libertà di espressione, ecc. Io stesso, quando ero a Gaza sono stato messo in prigione molte volte. Ma il punto è che se si vuole che il sistema politico palestinese sia basato su metodi democratici, allora bisogna accettare Hamas come parte della struttura palestinese, anche se non ne condividi la visione.

 

Negli ultimi anni Hamas ha perso molto del suo sostegno nelle strade di Gaza, ma ancora non è questo il punto: abbiamo bisogno di un sistema politico democratico sano e plurale in Palestina. Dobbiamo coinvolgere tutti, compreso Hamas, compreso la Jihad islamica, compreso il Fplp laico e di sinistra. Dev’essere una scelta nostra, non di Israele o dei suoi alleati. Altrimenti non avrà alcun valore agli occhi dei palestinesi».

 

Per tutto questo, al momento, sembra non esserci spazio e la domanda oggi è se esisterà ancora Gaza. «Dal 2005, quando vennero ritirarti i coloni, l’obiettivo israeliano è rendere la Striscia un luogo non adatto alla vita degli esseri umani. Controllano dal mare, dall’aria e da terra, prendono le risorse, acqua e gas su tutte. È un’occupazione digitale. Gaza è occupata, come la Cisgiordania. E in tutto e per tutto dipende dai suoi occupanti. Come sono occupate le nostre vite, i nostri sogni, i nostri ricordi. La maggior parte dei palestinesi sono nati durante una guerra e sono morti durante una guerra. La nostra vita è una guerra costante. Mi piacerebbe che i miei figli pensassero al futuro con quella speranza che a noi manca».