Le pulsioni antiliberali prevalgono un po’ dappertutto. Ma la storia ha sempre in serbo qualche sorpresa. La crisi dell’Occidente vista dal politologo Angelo Panebianco

L’ultimo campanello d’allarme arriva dal Venezuela. L’ex candidato alle elezioni presidenziali Edmundo González Urrutia costretto l’8 settembre a trasferirsi in Spagna perché, oltre al mandato d’arresto, «la sua vita è in pericolo», come denuncia María Corina Machado, leader dell’opposizione, sua sostenitrice nelle elezioni di fine luglio e obbligata quasi alla clandestinità. È «l’effetto Maduro»: la vittoria elettorale ottenuta dall’amico di Cina, Russia e Iran in una competizione non giudicata regolare dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. I tempi che viviamo premiano gli autocrati? All’inizio dell’anno, il “Democracy Index” del settimanale britannico Economist segnalava che meno dell’8 per cento della popolazione mondiale risiede in Paesi di «democrazia compiuta» e che il 39,4 per cento è sottoposto a governi autoritari. Si diffondono sistemi «ibridi», molto ingannevoli, in cui le elezioni non esauriscono le garanzie democratiche. Non solo il Venezuela di Nicolás Maduro. C’è anche la Turchia autoritaria di Erdoğan che ora bussa alla porta della casa dei Brics per raggiungere Vladimir Putin e Xi Jinping. Siamo su un piano completamente diverso, ma l’allarme democratico accompagna persino la campagna elettorale americana per la candidatura di Trump, ed è una novità da quando il tycoon è apparso sulla scena statunitense, a cominciare dalla sua presidenza. Ne parliamo con il politologo Angelo Panebianco, professore emerito dell’Università di Bologna, dove negli ultimi anni ha insegnato Sistemi internazionali comparati e che ha appena pubblicato il volume “Principati e repubbliche” (il Mulino). 

 

Con il possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca, anche dopo l’assalto quasi golpista a Capitol Hill, la democrazia è considerata a rischio addirittura negli Stati Uniti dove storicamente ha preso vita. Cosa significa soprattutto per noi europei?
«La democrazia per durare richiede che sussistano sia condizioni interne sia condizioni esterne. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti hanno rappresentato non solo una grande democrazia ma anche una potenza garante di un ordine internazionale che ora viene meno sottoponendo a pressione l’Europa, la quale rischia di perdere la calda coperta protettiva garantita in passato da Washington. Occorre distinguere i due piani. Su quello interno, Trump indubbiamente esprime pulsioni autoritarie che spaventano una parte dell’elettorato, ma la democrazia americana ha un importante sistema di bilanciamenti che la mette sempre al riparo. Quanto agli europei, la loro vera difficoltà nasce dall’indebolimento della potenza americana e dalla spinta anche elettorale a non difendere più l’ordine mondiale». 

 

Nel mondo si sviluppa una democrazia solo “elettorale” che si esaurisce nel voto popolare indebolendo sempre più il sistema delle garanzie? 
«Fino al 2004-2005 tutti i centri che monitoravano la situazione sostenevano che la democrazia era la formula vincente. L’argomento era il seguente: l’arrivo delle istituzioni democratiche in un numero notevole di Paesi che prima ne erano privi. Venuto meno sostanzialmente lo scontro fra Stati Uniti e Unione Sovietica, da un lato le dittature che erano state sponsorizzate da Mosca perdevano il riferimento fondamentale, dall’altro lato quelle dittature, in particolare dell’America Latina, che erano state appoggiate in funzione anti-sovietica, non avevano più ragione di sopravvivere. La sensazione era che ci fosse un processo di democratizzazione diffusa. In realtà si stava affermando quella che lei chiama democrazia elettorale. C’erano le elezioni, c’era la competizione fra i partiti ma mancavano altre condizioni fondamentali perché la democrazia si consolidasse, ad esempio lo Stato di diritto, la stampa libera ecc. In parte c’era davvero la democratizzazione di vari Paesi dopo la fine della guerra fredda, ma in altri casi la democrazia vincente era più un’impressione degli osservatori. Come dimostra anche il Venezuela, numerosi regimi ibridi mantengono molti elementi di autoritarismo ma al tempo stesso utilizzano alcune istituzioni della democrazia, il parlamentarismo, le elezioni più o meno controllate. In una democrazia occorre invece che il potere esecutivo, dotato anche di strumenti coercitivi, sia limitato dalla magistratura e dalle altre istituzioni che servono a garantire che non siano cancellate le libertà dei cittadini. Negli anni Novanta gli osservatori, sbagliando, scambiarono per democrazie compiute come le intende l’Occidente quelle che erano appunto solo democrazie elettorali, in cui la protezione dei diritti e delle libertà non era sufficientemente». 

 

In Europa, per quanto riguarda i fattori interni, la scossa arriva da destra: Le Pen in Francia , l’Afd in Germania, Orbán che vuole esportate la propria democrazia illiberale con il gruppo dei Patrioti dell’Assemblea di Strasburgo. È un populismo che può travolgere il conservatorismo novecentesco, come dimostra il progressivo declino dei gollisti o post-gollisti in Francia? 
«C’è un populismo etichettabile come destra forte e un populismo etichettabile come sinistra forte: pensi alle parti estreme della politica francese. Ci sono tendenze che fondamentalmente costituiscono il rifiuto della versione liberale della democrazia, soprattutto in una fase di crisi. Ci sono fasi, come negli anni Venti dello scorso secolo, in cui la democrazia è percepita molto indebolita, fortemente a rischio, sulla via del tramonto. Però la storia resta imprevedibile e non è affatto detto che oggi il sentimento pessimista sullo stato della democrazia, anche davanti a determinati movimenti illiberali, sia confermato dalla realtà, Certo, producono conseguenze negative alcuni elementi interni come l’indebolimento relativo dei ceti medi e anche l’estremizzazione della co municazione sui social. Aggiungo che la situazione difficile delle democrazie europee coinvolge l’Unione europea. Lo Stato nazionale nato in Europa non ha più la taglia per competere nel mondo in presenza di grandi imperi ma al tempo stesso risulta sufficientemente forte da bloccare i tentativi di creare una federazione europea tale da assicurare un futuro di sicurezza e di benessere ai Paesi europei. 

 

Con Mélenchon in Francia e i rossobruni di Wagenknecht in Germania, avanza anche una sinistra populista abbastanza inedita. Come interpreta questo fenomeno? 
«Si tratta dell’altra faccia di quanto avviene a destra. È in atto una polarizzazione che in quanto tale rappresenta un segnale di malessere della democrazie: posizioni estreme risultano attraenti. Inevitabilmente il rafforzamento di certe componenti della destra ha riflessi sulla sinistra e viceversa. Questa non è una buona notizia per chi punta alla stabilità delle democrazie medesime. Però anche la Storia è imprevedibile, ci sono fasi di polarizzazione seguite, quando le condizioni internazionali e nazionali lo permettono, da fasi di depolarizzazione. Siamo spesso portati a pensare che una tendenza in atto sia irreversibile, ma non è necessariamente così. Possono intervenire fattori che fanno cambiare tutto». 

 

La Turchia di Erdoğan, già in predicato di entrare nell’Unione europea, chiede di aderire al gruppo dei Brics, unendosi a Brasile, Russia, Cina, India più altri Paesi che si oppongono alle economie occidentali. È ormai un’alleanza che può diventare anche politica, orientandosi verso un dispotismo alternativo alla liberal-democrazia? Una nuova Internazionale che mescola destra e sinistra fino ad annullarle in un indistinto contenitore illiberale? 
«I Brics sono una cosa complessa ed eterogenea. Ne fa parte l’India che ha alcune ragioni di solidarietà con i Paesi del Brics ma altre non lo sono affatto. Cina e India sono nei Brics ma rivali nell’Indo-Pacifico e altrove. L’India si muove autonomamente ed è alleata degli Stati Uniti in certi campi. Ha anche rapporti stretti, che vengono dal passato, con la Russia. I Brics non sono un’organizzazione coesa: gli Stati che aderiscono segnalano l’indisponibilità a essere parte docile dell’ordine occidentale. Che Erdoğan voglia aderire è il segno del rafforzamento della sua tendenza a giocare su tutti i tavoli, fa parte della Nato ma anche di tutte le organizzazioni contrarie all’ordine occidentale». 

 

Lei come vede la Russia putiniana?
«La Russia segue la propria vocazione imperiale. Putin si rifà a Pietro il Grande, lo zar che rese la Russia una grande potenza in competizione con quelle europee, la Russia a cavallo fra Europa e Asia. Il suo strumento principale per garantirsi il ruolo di grande potenza oggi è costituito dalle armi nucleari assieme alla possibilità di disporre di un grande numero di soldati. Ma si trova a essere un partner minore della Cina». 

 

Il dispotismo comunista della Cina comunista può diventare un modello politico per l’Africa? 
«È quello che la Cina spera. Ma se dovessi scommettere su un Paese è l’India, con una società aperta e una democrazia che, a differenza di un regime fondato sul partito-Stato, la rendono più attraente, fino a porsi come punto di riferimento per tanti Paesi del Sud del mondo». 

 

Ma perché molte società contemporanee si sentono più sicure e meno fragili sotto la guida delle autocrazie? 
«Non è facile rispondere alla domanda, perché la democrazia – fondata su un governo limitato che non mina le libertà – è un regime fragile, un gioco di equilibri che possono essere anche alterati. Un regime complesso, fatto di compromessi e di mediazioni più o meno faticose, che si consolida quando sono favorevoli anche le condizioni internazionali. L’autoritarismo esercita un certo fascino su alcune parti della popolazione perché viene visto come la soluzione semplice ai problemi: c’è chi comanda e basta. Però i costi sono molti elevati: la sofferenza umana che provoca ai cittadini, privati dei diritti. Ecco perché larga parte della popolazione, quella maggioritaria, ne diffida. E fin quando è così, la democrazia regge».