Migliaia di donne in Palestina partoriscono tra le macerie, in Cisgiordania tutto è più rischioso. A Betlemme un’isola felice: l’ospedale dell’Ordine di Malta, l’unico in grado di assistere i prematuri

Non è una guerra, ma un assedio. La Striscia è tagliata fuori dal resto del mondo, i suoi due milioni di abitanti, dal 7 ottobre 2023, scandiscono i respiri con il frastuono delle bombe. Si blocca per un attimo il fiato. Sospesi come polvere. Se si resta vivi, il fiato riprende, in attesa che il prossimo caccia di Tel Aviv squarci l’aria. Il mare è lì, ma non può essere navigato. L’acqua potabile è un lusso. Fuggire via terra non è contemplato e buona parte dei gazawi nemmeno lo desidera: la Nakba è una cicatrice che si riapre a ogni crollo di edificio. Se non si può uscire dalla Striscia, almeno gli aiuti umanitari potranno entrarci?

 

Il Sovrano ordine di Malta, con il supporto del Patriarcato latino di Gerusalemme, è stata l’ultima realtà che è riuscita ad arrivare a Gaza Nord. Da maggio 2024 fino all’inizio di quest’anno, ha fatto recapitare 200 tonnellate di cibo e prodotti freschi agli sfollati della parte alta della Striscia. Poi la tregua si è spezzata, sono ripresi gli attacchi israeliani e i rumori delle armi sono tornati a rendere viva l’immagine dell’inferno. I morti? Cinquantamila dall’inizio delle ostilità.

 

In Cisgiordania, il conflitto assume altre sembianze. È un campo di battaglia più silenzioso. I raid dei militari israeliani sono rapidi, poi però restano i posti di blocco che impediscono ai civili di raggiungere gli ospedali, le demolizioni di case e infrastrutture, la violenza dei coloni che si consuma sotto gli occhi dell’esercito di Tel Aviv. Se a Gaza migliaia di donne sono costrette a partorire tra le macerie, anche in Cisgiordania le nascite stanno diventando sempre più rischiose.

 

L’Holy Family Hospital è un ospedale di neonatologia attivo a Betlemme dal 1990 che ha aiutato oltre 100 mila donne a partorire. È un’eccellenza per la regione: non esistono altre strutture in grado di assistere nascite premature. Il centro offre un reparto di terapia intensiva neonatale con 18 posti letto. Inoltre, dal 1995, è la base di partenza di una clinica mobile che raggiunge i villaggi più remoti e isolati della Cisgiordania per effettuare visite ginecologiche. «Purtroppo, le difficoltà di movimento nell’area stanno aumentando e ci impediscono di erogare le nostre cure a donne e bambini che necessitano di terapie vitali», racconta Riccardo Paternò di Montecupo, gran cancelliere dell’Ordine di Malta.

 

L’Holy Family Hospital è, di fatto, un osservatorio di ciò che accade nella regione. Nel 2024, la struttura ha registrato 3.902 nascite: è il dato più basso degli ultimi anni. Incidono l’aggravarsi della situazione economica in Cisgiordania, ma anche i riverberi di un conflitto con Israele che, seppure non esplicito, c’è. Fino a poco tempo fa, da Hebron arrivavano diverse pazienti per partorire nella struttura di Betlemme. Oggi gli spostamenti sono pressoché impossibili.

 

Eppure, nonostante la bassa cifra di nuovi nati, il carico di lavoro nell’ospedale è cresciuto. L'Ordine di Malta, che gestisce la struttura, ha rilevato che i parti con complicanze sono aumentati e, di conseguenza, i neonati che hanno bisogno di essere ricoverati in terapia intensiva. Nel 2024, il tasso di cesarei è salito del 4 per cento rispetto all’anno precedente. L’incidenza di prematuri è schizzata del 22 per cento. Ancora, il numero di neonati rimasti in terapia intensiva per più di 50 giorni è del 113 per cento, con un tasso di bambini nati eccessivamente piccoli che ha raggiunto il 56 per cento. «Nel 2023, nel nostro ospedale ad altissimo livello tecnologico, è nato il 100 millesimo bambino. Una meraviglia per il territorio della Cisgiordania. Abbiamo anche una clinica mobile in grado, poi, di raggiungere i luoghi più sperduti. Nella regione non abbiamo mai individuato grossi problemi legati alla maternità». Fino ad oggi. «Adesso sono cambiate le condizioni sul campo persino in Cisgiordania», afferma Paternò, appena rientrato da una missione in Medio Oriente, nel Libano.

 

«Noi restiamo a disposizione, anche per tornare a Gaza Nord quando la situazione lo consentirà. Vorremmo riprendere l’attività sanitaria e quella di piccolo credito che avevamo nella Striscia. Ma, paradossalmente, da quando la fase di tregua è iniziata, per poi concludersi, le cose si sono fatte più complicate». I volontari dell’Ordine riuscivano a entrare a Gaza Nord grazie a un intenso lavoro diplomatico che coinvolge le autorità palestinesi e quelle israeliane. «Ma è decisiva anche la grande tradizione di neutralità dell’Ordine di Malta. Siamo visti come un’entità che aiuta indipendentemente dal profilo della persona aiutata».

 

In un territorio dove vecchi e recenti conflitti incrociano continuamente questioni religiose, il gran cancelliere porta come esempio il personale che lavora nell’ospedale di Betlemme: «È prevalentemente composto da persone musulmane, eppure tutti indossano la divisa che mostra la croce ottagona dell’Ordine di Malta». Mentre la Cisgiordania vive un’escalation di violenza, l’Holy Family Hospital viene riconosciuto sempre più come un rifugio. Riscaldamento, elettricità, acqua corrente, qui come in pochi altri luoghi della regione, sono garantiti a ogni ora del giorno. Chi riesce a raggiungere la struttura come Riham, che ha partorito una bambina di nome Sama, ricorda dell’esperienza in ospedale anche la sensazione di sicurezza: «Sapevo di essere in buone mani».

 

Anche Shruq e suo marito, Jaber, sono riusciti ad arrivare insieme all’Holy Family Hospital per dare alla luce Rayan, il loro quinto bambino. Erano stati accolti nel centro anche per le nascite degli altri quattro figli. «Ogni gravidanza è unica, ma la sicurezza che ho provato ogni volta ha fatto la differenza. Questo ospedale è più di una struttura sanitaria, è il nostro porto sicuro. È un pilastro che sostiene ogni madre che vuole sicurezza per sé e il proprio bambino», afferma Shruq.

 

L’ospedale di Betlemme sorge a meno di 100 chilometri di distanza dalla Striscia. È una distanza minima, ma in grado di separare una terapia intensiva neonatale ad alto sviluppo tecnologico, in Cisgiordania, da un territorio come quello di Gaza dove solo una quindicina di ospedali sono ancora parzialmente o minimamente funzionanti. Le altre strutture sanitarie, circa 20, sono state distrutte dall’offensiva israeliana. Se non si muore sotto i bombardamenti, nella Striscia, si muore di fame o per l’assenza di cure.

 

«È inutile fare l’elenco dei bisogni quando parliamo di questi territori», chiosa il gran cancelliere dell’Ordine di Malta, «perché qui c’è bisogno davvero di tutto. E si è persa la ragione: le persone usano solamente le armi per dialogare». In Medio Oriente, «moltissimi hanno sulla carne viva il segno di tragedie incommensurabili. Decenni di conflitti hanno permesso che si sviluppasse, persino in alcuni bambini, una sorta di abitudine alle bombe. Se non c’è altro, se l’arma resta l’unica modalità di confronto, se il tempo viene scandito dalle esplosioni, non ne usciamo più». Tuttavia, conclude Paternò, ci sono due parole che guidano la missione dei volontari in Medio Oriente e che dovrebbero risuonare più forti delle bombe: «“Speranza”, che aiuta a conservare lo spirito del lavoro finanche nella catastrofe. E “Neutralità”, che significa operare senza giudizi».

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