Alle tariffe, alle minacce di annessione, alla prepotenza americana, i canadesi hanno risposto con l’orgoglio. I liberali del primo ministro Mark Carney - dati per spacciati fino a febbraio - hanno portato a casa la più insperata delle vittorie. Una rimonta che si tinge di fierezza nazionale. Al potere dal 2015, sono al quarto mandato consecutivo. Stando alle proiezioni, però, non dovrebbero essere riusciti a ottenere i numeri necessari per formare un governo di maggioranza, ovvero 172 su 343 seggi alla Camera dei Comuni. I liberali, con i probabili 167 seggi raggiunti, dovrebbero dunque comporre un governo con il supporto di partiti minori. Quel che è certo, però, è che il populista Pierre Poilievre, leader quarantacinquenne del partito conservatore e sfidante principale, resterà all’opposizione.
Dopo aver guidato il Canada fuori dalla crisi finanziaria del 2008 e aver aiutato l’Inghilterra ad affrontare la Brexit, per il sessantenne Carney, ex governatore delle Banche Centrali di Canada e Inghilterra, è arrivato il momento di una nuova sfida: afferrare la fionda di Davide e affrontare il Golia americano. “L’uomo delle crisi” diventa ora il volto nuovo della resistenza, chiamato a difendere il Paese dalla guerra commerciale scatenata da Donald Trump e dallo spauracchio di trasformarlo nel cinquantunesimo Stato.
Netto il ridimensionamento dei partiti minori; praticamente spariti dalla scena i Verdi, deludente anche il New Democratic Party. Tengono invece, pur perdendo terreno, gli indipendentisti del Bloc Québécois. Non ha giovato ai conservatori la contiguità ideologica con Trump, tanto che ieri Poilievre, ad urne aperte, si era visto costretto a chiedere al presidente con tweet di "restare fuori dalle elezioni", dopo che il repubblicano su Truth Social aveva rimesso sul piatto l’ambizione annettere i vicini settentrionali. Una presa di posizione arrivata troppo tardi per un elettorato che è andato alle urne per votare il candidato che meglio avrebbe tenuto testa a Trump.
La rimonta dei progressisti
Quando il 6 gennaio nel vialetto davanti alla residenza di Ottawa annunciò le dimissioni in un breve discorso pieno di commozione, Justin Trudeau portava nel cuore il peso di consegnare al prossimo leader un partito insofferente, destinato alla sconfitta. Tutti i sondaggi, infatti, davano i conservatori tra i 20 e i 25 punti sopra. Una triste eredità politica: i canadesi erano stanchi dell’economia stagnante, della crisi abitativa, della controversa tassa sulle emissioni, della gestione dell’immigrazione e in generale delle riforme sociali. Un malcontento che durava da anni e che Poilievre aveva intercettato riuscendo a costruire una piattaforma conservatrice che sembrava vincente. Era lui il leader dell’opposizione, l’uomo del cambiamento, del Canada First, del pugno duro ai confini, della guerra alla cultura woke. Anche Ottawa aveva il suo Trump, dissero molti. Purtroppo per lui, con il senno di poi. Subito dopo l’insediamento, il presidente repubblicano, infatti, ha iniziato a prendere di mira i cugini del nord, i migliori alleati, i confinanti fedeli. Prima con i dazi, poi suggerendo la cinquantunesima stella, tanto da riferirsi più di una volta al primo ministro Trudeau come al “governatore”. Un attacco potenzialmente letale per le sorti del Canada, che però, anziché piegarsi, ha risposto con orgoglio e ritrovata identità. Inizialmente Trudeau e poi Carney sono riusciti a capitalizzare questi sentimenti. Poilievre, invece, rallentato dalla difficoltà di prendere nettamente le distanze da Trump, ha continuato a puntare soprattutto sulla necessità di un cambiamento, dopo dieci anni di governo liberale giudicato “disastroso”. Da febbraio, giorno dopo giorno, e soprattutto nei 36 giorni di campagna elettorale, quel distacco di 20 punti si è eroso, fino al sorpasso, impensabile solo qualche mese prima.
“Elbows up”
Traditi dai più stretti alleati, i canadesi hanno risposto alla politica dei dazi con un movimento di boicottaggio generalizzato: dallo shopping, alla cultura, al turismo. I negozianti hanno iniziato a contrassegnare i prodotti locali da quelli importati, altri li hanno direttamente eliminati dagli scaffali. Tantissimi hanno cancellato gli abbonamenti a Netflix e Amazon, ma anche i viaggi già programmati in Usa. Un cambio di programma quest’ultimo che secondo Forbes potrebbe produrre una perdita potenziale stimata in 6 miliardi di dollari nel corso dell’anno. “Ora è il tempo di scegliere il Canada. In estate esplorate i parchi e i siti storici che il nostro meraviglioso paese ha da offrirvi”, aveva detto Trudeau, nel discorso di risposta a Trump lo scorso febbraio. “Elbows up” - gomiti alti, come si usa dire nell’hockey su ghiaccio in fase di difesa - hanno gridato gli elettori per settimane durante la campagna elettorale di Carney.
La nuova distanza dagli Stati Uniti di Trump
L’ondata di protezionismo promossa dall'amministrazione Trump ha alimentato anche la riscoperta del nazionalismo culturale canadese. Dai brani musicali patriottici alle esposizioni artistiche che celebrano l'indipendenza dall'influenza americana, la cultura è strumento di resistenza. A rafforzare il senso di allarme sono gli intellettuali progressisti, che osservano da anni con crescente inquietudine l'evoluzione politica degli Stati Uniti, dalla prima alla seconda presidenza Trump. Già nel 2022, dalle pagine del Globe and Mail, il politologo Thomas Homer-Dixon aveva profetizzato la possibilità che "entro il 2030, se non prima" gli Stati Uniti potessero cadere sotto una "dittatura di destra". Una previsione che oggi appare per molti osservatori canadesi ancora più plausibile. "L'America che conoscevo, l'America che amavo, ha chiuso i battenti", afferma lo scrittore Stephen Marche sul Guardian, rievocando i temi del suo saggio sulle destre The Next Civil War. Per il Canada, ciò che avviene al di là del confine non rappresenta semplicemente un cambio di leadership, ma un drammatico segnale di implosione democratica.
È in questo filone che si innestano le “fughe” di ricercatori e professori americani verso il Canada. Secondo un sondaggio della rivista Nature, il 75,3% degli scienziati in forze negli istituti statunitensi sta prendendo in considerazione l'idea di lasciare gli Stati Uniti a seguito del taglio dei finanziamenti alla ricerca. E il Canada è una delle mete predilette. Nei primi cento giorni di attività l’amministrazione Trump ha attaccato il mondo della cultura americana, cominciando dalle università, molte appartenenti alla prestigiosa Ivy League.Tra queste, Harvard – attualmente coinvolta in una causa con l’amministrazione – è stata definita dal presidente una minaccia alla democrazia. La Casa Bianca sta colpendo le istituzioni ree di promuovere la cultura woke, la teoria della razza e i diritti Lgbtq+. Sotto la scure sono finite le scuole ritenute “antisemite e di estrema sinistra”, per la gestione delle manifestazioni filopalestinesi; l'amministrazione ha anche revocato i visti di centinaia di studenti stranieri (anche se ora i tribunali stanno accogliendo i ricorsi e annullando molti dei provvedimenti). Tra le defezioni eccellenti, c’è quella del filosofo Jason Stanley, docente a Yale, che ha deciso di trasferirsi all’Università di Toronto, in opposizione alle pressioni dell’amministrazione Trump sulle istituzioni accademiche. Stanley - autore di How Fascism Works - ha criticato le restrizioni sulla libertà di espressione.
E la vicinanza all’Europa
Appena nominato primo ministro, a marzo, Mark Carney ha scelto l'Europa come destinazione del primo viaggio internazionale - non Washington - con l'obiettivo di rafforzare ulteriormente l’alleanza con i "cugini europei". Da Parigi, Carney ha spiegato quanto fosse necessario intensificare non solo i legami commerciali, ma anche quelli in materia di sicurezza. "Voglio assicurarmi che la Francia e tutta l’Europa collaborino con entusiasmo con il Canada, il più europeo dei Paesi non europei", ha dichiarato. Tra Ottawa e Bruxelles, infatti, esiste un legame profondo, non solo economico, ma anche culturale e valoriale. Tanto che, dopo l'escalation della guerra commerciale, molti canadesi hanno iniziato a fantasticare sull’idea di entrare a far parte dell’Unione Europea. Secondo un sondaggio recente, il 46% degli intervistati si è detto favorevole all’adesione. Tuttavia, pur dichiarandosi "onorata" dal risultato, la portavoce della presidente della Commissione, Paula Pinho, ha precisato che, in base all’articolo 49 del Trattato sull'Unione Europea, solo gli Stati europei possono formalmente candidarsi all’ingresso nell'UE. L’interesse a rafforzare i rapporti resta comunque reciproco. Durante quella visita, anche re Carlo ha ribadito il pieno sostegno a Ottawa. Del resto, in quanto capo di Stato simbolico del Canada, membro del Commonwealth, il suo ruolo assume un valore particolare. Carney, d’altronde, conosce a fondo le dinamiche economiche e politiche del Vecchio Continente, grazie agli studi a Oxford e alla sua esperienza alla guida della Banca d’Inghilterra.