Sono bastati 70 secondi di immagini per azzerare tre mesi di processo, 21 udienze e le deposizioni di 44 testimoni. Immagini leggere, disinvolte e molto autoreferenziali. Dovevano essere il cuore di un docufilm che ricorreva la storia umana e professionale di Julieta Makintach, una bella donna di 47 anni, avvocata, giudice di Tribunale, docente di Diritto penale presso l’Università Austral di Buenos Aires. Si è rivelato un boomerang che non solo ha fatto esonerare la brillante magistrata dalla Terza corte penale di San Isidro, un sobborgo elegante della capitale argentina, per «incompatibilità e grave pregiudizio», ma annullare l’intero processo che cercava di stabilire come è morto Diego Armando Maradona e se poteva essere salvato dal personale medico e infermieristico che lo aveva in cura.
L’anima del “Pelusa”, del ragazzo di Villa Fiorito, del “pibe” cresciuto nella povertà e nei campi, l’eroe del pallone che ha restituito dignità all’Argentina piegata dalla brutalità della dittatura militare e riscattato il suo orgoglio ferito dalla guerra della Falkland/Malvinas, continua ad aleggiare senza avere pace. Ci vorranno un’altra sezione di tribunale, altri mesi di udienze, con gli stessi sette imputati di “omicidio volontario con dolo” alla sbarra, gli stessi avvocati difensori, le stesse donne, mogli e figlie del numero 10 della nazionale prima di arrivare a una sentenza che tutti attendono tra grandi speranze e molte delusioni. Se un giorno ci sarà.
Maradona è morto il 25 novembre del 2020. In piena pandemia da Covid. Aveva da poco compiuto 60 anni e da tempo arrancava sotto il peso di una vita fatta di eccessi, prigioniero di grandi bevute e lunghe nottate a base di cocaina. Era stato appena operato per un edema cerebrale. La sua famiglia, le mogli e le figlie che gli stavano vicino avevano deciso di trasferirlo in una casa presa in affitto alla periferia di Buenos Aires. Volevano proteggerlo, da chi gli stava attorno da sempre e dalla polvere bianca che lo inseguiva. Lo assistevano quattro medici, due infermieri e uno psicologo. Quando Diego ha dato gli ultimi sussulti e ha lasciato a lutto un intero Paese e gran parte del mondo, molti si sono subito chiesti se era stato fatto di tutto, e bene, per tentare di tenerlo, di salvarlo.
Cinque anni dopo e infinite polemiche e ricostruzioni spesso esagerate, false e distorte, l’11 marzo di quest’anno il caso Maradona è stato portato davanti alla giustizia. L’ipotesi della procura che aveva aperto un’indagine era appunto di «omicidio volontario con dolo». Una tesi sostenuta anche da Dalma e Gianina, le figlie che Maradona aveva avuto con Claudia Vilafañe. Le deposizioni dei testimoni non erano riuscite a chiarire il peso delle singole responsabilità, ma il dibattimento si avviava verso una sentenza che molti scommettevano sarebbe stata di colpevolezza. Il 24 maggio, come sempre inaspettata, arriva la sorpresa. Gira sui social un teaser (una sorta di piccolo trailer utilizzato per vendere un film nel mercato della distribuzione) su un documentario in corso d’opera sul processo in corso. Ha un titolo accattivante: “Giustizia Divina”. La protagonista è la giudice Makintach.
Nelle immagini la si vede mentre parla dritta alla telecamera, cammina nel suo ufficio e riflette sul ruolo della magistratura. La voce narrante, le interviste, il montaggio professionale sono un vero schiaffo al sistema giudiziario argentino. Ma soprattutto dalle frasi della giudice si capiva perfettamente che aveva già scritto la sua parte del verdetto. Che era di colpevolezza. Cosa che ha spinto gli avvocati di difesa a chiedere l’annullamento del processo e a ottenere un punto a favore dei loro assistiti.
Subito interpellata, la magistrata nega qualsiasi sua partecipazione. Parla di fake e minaccia querele. Ma i segugi della stampa scoprono che si tratta di immagini vere e che uno degli ideatori del progetto è Juan Manuel “Chavo” D’Emilio, sceneggiatore e produttore esperto, caro amico di Makintach. L’idea era una docuserie avvincente, con testimonianze e drammatizzazioni che avrebbero avuto un vantaggio aggiuntivo che nessuna altra casa di produzione avrebbe potuto avere: riprese in tempo reale dietro le quinte, accesso a location private grazie al permesso di un giudice, immagini dal vivo che sarebbero andate perse una volta terminato il processo. La corte d’Assise aveva infatti formalmente deciso di negare ogni tipo di ripresa delle udienze lasciando l’esclusiva a quelle del tribunale.
Sebbene avesse negato ogni responsabilità sul docufilm, tutte le responsabilità si appuntano su Makintach. Si scopre che lei stessa aveva autorizzato le registrazioni nel suo ufficio e nei corridoi dell’aula del tribunale, senza l’approvazione ufficiale e all’oscuro dei suoi colleghi. Ma il muro di segreto che avvolgeva tutta l’operazione si è ben presto sgretolato. Si è stabilito che il cameraman Jorge Huarte e altri membri della troupe erano entrati nel tribunale usando credenziali false, spacciandosi per studenti di comunicazione o impiegati dell’ufficio giudiziario. Gli altri due giudici della sezione della Corte dove si teneva il processo per la morte di Maradona, Maximiliano Savarino e Verónica di Tomasso, hanno denunciato tutto alla corte Suprema di Buenos Aires, presentando documenti e file che collegavano la loro collega alla produzione del documentario.
La sentenza è stata devastante per Julieta Makintach: sospensione dall’incarico per 90 giorni e stipendio ridotto al 60 per cento. L’Università Austral dove insegnava l’ha rimossa dal suo incarico. La vicenda è stata accolta con una valanga di epiteti: “Vergogna mondiale”, “senza precedenti”, “vergognoso”. I vertici della magistratura hanno chiesto di agire in modo «esemplare». Qualcuno è arrivato a ipotizzare l’arresto della magistrata. Lei, tacciata di arroganza ma in fondo solo molto ingenua, cerca di superare la tempesta. Se ne uscirà indenne, non ha molte alterative: tornerà a fare l’avvocata.