Tutti la vogliono, tutti la cercano. Sulla bilancia delle «guerra mondiale e pezzi», come la definì papa Francesco, torna a pesare la deterrenza: armarsi per difendere la pace. Se la Ue si allinea alle richieste di Donald Trump e i 27 (con l’eccezione del premier spagnolo Sánchez) accettano di investire il 5 per cento del pil per potenziare il proprio sistema di difesa, nel resto del mondo è iniziata da tempo la corsa alla bomba atomica.
Il ragionamento a sostegno di una scelta opposta a quella seguita finora si fonda su un assunto semplice e ritenuto efficace: se hai l’ordigno nucleare nessuno ti attaccherà. L’equilibrio delle forze resterà inalterato e la tua sovranità territoriale sarà garantita. Uno spauracchio. Una minaccia per sventare un’altra minaccia. Chi sostiene questa tesi ricorda cosa è avvenuto negli ultimi tre anni e ancora nelle ultime settimane. La Russia, dicono i fautori della grande caccia all’atomica, non avrebbe mai invaso l’Ucraina se questa non avesse restituito il suo arsenale atomico a Mosca quando è uscita dall’ombrello protettivo della vecchia Urss. Viceversa, la Corea del Sud è costretta a vivere nella paura di essere attaccata da quella del Nord perché è sprovvista di un ordigno atomico che invece Pyongyang possiede e declama a ogni occasione. Sondaggi informali confermano che la maggioranza dei sudcoreani sarebbe favorevole alla costruzione di un ordigno nucleare. India e Pakistan, entrambi Paesi atomici, si sono scontrati per una settimana rivendicando diritti territoriali sul Kashmir, la regione a statuto speciale che Islamabad considera sua anche se è da tempo legata a Nuova Delhi. Eppure, nessuno dei due Paesi, mentre si lanciavano a vicenda missili e droni, ha minacciato di ricorrere alla bomba nucleare.
Diverso il caso di Israele. Per evitare che il suo storico nemico, l’Iran, riesca a costruire un ordigno atomico, ha fatto qualcosa che non aveva mai osato fare: ha sferrato un attacco aereo bombardando gran parte dei siti di studio e sviluppo del programma nucleare. Ha finito per distruggere gran parte degli edifici che conservavano uranio arricchito al 5 per cento, (quindi destinato all’uso civile come Teheran sostiene), ucciso una decina tra scienziati e alti ufficiali delle Forze Armate e dei Guardiani della Rivoluzione. Ma se lo Stato ebraico si è misurato con un piano che coltivava da sempre, è stato in grado di farlo convinto che l’Iran non avrebbe mai potuto minacciare il ricorso a un ordigno nucleare, perché non ancora realizzato. Anzi, grazie al sostegno Usa che ha partecipato alle incursioni usando i famosi GBU-57, i buster bunker capaci di perforare gli strati di cemento armato fino a 60 metri di profondità, si è assicurata di aver almeno ritardato, e di molto, i tempi di realizzazione di una bomba atomica.
Nel mondo sono cinque i Paesi che attualmente posseggono un arsenale nucleare. Formano quello che viene chiamato il “club nucleare”. In base ai termini del trattato di non proliferazione (Tnp), entrato in vigore il 5 marzo del 1970, sono considerati ufficialmente “Stati con armi nucleari”, cioè Stati che hanno assemblato ordigni atomici prima del 1° gennaio 1967. Sono: Stati Uniti d’America, Russia (ex Urss), Regno Unito, Francia e Cina. Si tratta di cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ci sono poi altri Paesi, non aderenti al Tnp, che hanno sviluppato o posseggono bombe nucleari: India, Pakistan, Corea del Nord (che aveva aderito al Trattato nel 1985 ma poi si era ritirata nel 2001) e Israele che ufficialmente nega di avere ordigni atomici (anche se fonti non ufficiali stimano abbia 90 testate). Infine, ci sono gli Stati che hanno deciso di smantellare il proprio forziere nucleare. Il Sudafrica lo allestì tra la metà degli Anni Settanta e la fine degli Ottanta del secolo scorso ma se ne liberò nel 1991; la Bielorussia, il Kazakistan e l’Ucraina, conquistando l’indipendenza, si ritrovarono a gestire armi nucleari ex sovietiche. Anche loro le hanno smantellate o restituite ai legittimi proprietari.
Negli ultimi anni la realtà del sempre opaco mondo dell’arma nucleare è cambiata. C’è una rincorsa verso l’uranio da arricchire e la creazione di laboratori dove testare i vari prototipi. Pochi lo ammettono ufficialmente. L’Arabia Saudita insegue da tempo questo obiettivo ed è probabile che lo raggiunga presto. Lo stesso principe Mohammad Bin Salmanha detto di volerlo. La Turchia si è pronunciata a favore con le parole di un suo ministro. Persino la Germania, con i suoi 1.000 miliardi di euro da investire in armamenti, aspira ad avere una sua bomba nucleare.
La Aiea, l’Agenzia per l’atomica dell’Onu, incaricata di vigilare su questo delicato e complesso settore, vive momenti di grossa difficoltà. Il suo direttore generale, Rafael Grossi, è stato duramente criticato dalle autorità iraniane. Sospettano che abbia passato a Israele le informazioni raccolte sul campo. L’incursione di Tel Aviv è avvenuta dopo la pubblicazione del rapporto nel quale si denunciavano delle violazioni del Protocollo di garanzie da parte del regime degli ayatollah. Non lo avevano scritto in modo così chiaro per 20 anni. Ma lo stesso direttore generale era stato altrettanto netto nel dire che l’Iran non era a un passo dall’atomica e che, nonostante i suoi sforzi, ci sarebbero voluti almeno tre mesi, non pochi giorni o settimane come sosteneva Israele, per raggiungere il suo obiettivo. Questo non ha evitato a Rafael Grossi un vespaio di critiche. Persino di richieste di arresto o minacce di morte lanciate durante i funerali delle vittime della “guerra dei 12 giorni” a cui ha partecipato una folla oceanica.
Il capo della Aiea si è attirato un altro fuoco di polemiche da parte di Trump dopo aver precisato, in un’intervista alla Cbs, che l’incursione aerea di Tel Aviv e poi degli Usa non aveva provocato quei danni totali al programma nucleare. Teheran, secondo Grossi, è in grado di riprendere ad arricchire l’uranio «nel giro di pochi mesi». Una dichiarazione che contrasta la tesi del presidente americano convinto che la serie di bombardamenti ha «annientato» il sistema di produzione e arricchimento nucleare iraniano facendo arretrare di decenni le ambizioni degli ayatollah. «Dispongono ancora delle loro capacità», aveva aggiunto Rafael Grossi, e possono arricchire l’uranio «nel giro di pochi mesi, usando qualche cascata di centrifughe che girano e producono uranio arricchito». Insomma, al di là dei danni inferti al programma nucleare di Teheran, resta il mistero dei 400 kg di uranio raffinato al 60 per cento (quindi vicino al 90 necessario per una bomba) che la stessa Aiea non sa dove sia stato stoccato dai dirigenti dell’autorità nucleare iraniana.
Ma ci sono Paesi che pur non possedendo la bomba nucleare sono disposti ad ospitarle per conto della Nato. Si tratta di testate armate su dei missili a loro volta conservati nelle basi degli Usa. Accettano tutti la “condivisione nucleare”, il nuclear sharing: prepara gli Stati aderenti non dotati di propri arsenali atomici all’uso di armi tattiche e strategiche in caso di conflitto. Dal 2018 i Paesi Nato che aderiscono a questo programma sono il Belgio (con 10 testate dislocate nella base di Klein Brogel), la Germania (10-20 testate nella base di Büchel), l’Italia (50 testate ad Aviano e 20-40 in quella di Ghedi), i Paesi Bassi (10-20 testate nella base di Volkel) e la Turchia (50-90 testate nella base di Adana). Nel mondo, attualmente, ci sono 12.241 testate nucleari. Sottoscrivere l’impegno per un riarmo da 700 miliardi (3,5 del pil in armi e 1,5 in strutture di sicurezza) è un passo che porterà a un inevitabile aumento di questa enorme santabarbara. Basterà una piccola scintilla e il mondo sparirà grazie alla bomba che doveva preservare la pace.