Mondo
21 agosto, 2025La distribuzione di aiuti nella Striscia è monopolizzata da Israele. Che la usa per allestire trappole mortali. E i soldati confessano di giocare al tiro al bersaglio con gli affamati in fila
È il 28 marzo 2025. Nel cielo di Gaza i colori dell’alba cercano di farsi posto tra il bagliore delle bombe. È un nuovo giorno. I tiepidi raggi primaverili si intrufolano tra i cumuli delle macerie, penetrano tra le onde del mare, si insinuano nelle tende, solleticano gli occhi di bambini, donne, anziani. Fame: è la prima cosa alla quale pensa ognuno di loro non appena si ricompone dopo uno sbadiglio. Se il sonno fa dimenticare il bisogno di mangiare, il giorno non dà tregua a quel pensiero fisso.
«Ho fame», è la prima cosa che sussurra tra sé Amir Abd-Al Raheem, un bambino di cinque anni. Non ricorda più quanto è passato dall’ultima volta che ha mangiato un piatto che lo ha saziato. Conta i giorni. Due mesi pieni, anzi, più. Dal 2 marzo 2025 nella Striscia è vietato l’ingresso, via terra, di qualsiasi aiuto. Amir pensa a tutti i camion colmi di cibo che Israele blocca di fronte ai valichi chiusi. Pensa a tutte le cose buone che potrebbero esserci all’interno. La fame aumenta, il gorgoglio dello stomaco si fa insistente. Non ha più un padre, glielo hanno ucciso durante un attacco aereo. Nessuno oltre a lui può andare alla ricerca di cibo. Si incammina. Si dirige verso il sito numero due della Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), senza sapere a cosa sta andando incontro. In realtà, nessuno sapeva cosa fosse quel nuovo metodo di distribuzione degli aiuti. La Ghf – organizzazione di cui non si conoscono i finanziatori, riconosciuta solo da USA e Israele – aveva cominciato a operare da soli due giorni, il 26 maggio 2025, monopolizzando l’intero sistema di distribuzione degli aiuti e smantellando gli oltre 400 punti di distribuzione gestiti dall’Onu in collaborazione con decine di organizzazione umanitarie locali e internazionali.
Quando Amir giunge sul posto, dopo dodici chilometri di camminata, la calca delle persone affamate aveva già svuotato tutto. Per miracolo, scova per terra una piccola busta di riso, mezza busta di farina e un pacco di lenticchie. Niente acqua. Perché la Ghf non la fornisce. È stanco, ma immensamente grato. La sua felicità è grande, gli scoppia nel cuore, ha bisogno di essere espressa. Va verso due contractor americani. Le sue mani fragili, scheletriche, accarezzano il viso di Antony Aguilar. «Thank you», gli sussurra. Poi gli bacia la mano. «Gli ho messo una mano sulla spalla sinistra, e l’ho guardato, potevo sentire le ossa nella sua spalla. Potevo sentire la debolezza nel suo braccio, la sua vulnerabilità», testimonierà Aguilar dopo le dimissioni dal ruolo all’interno della Ghf. Quel bambino scalzo, con i pantaloni strappati e con una specie di corda legata in vita per tenerli su, torna verso il gruppo principale e si avvia verso l’uscita. L’Idf comincia a sparare contro la folla affamata. Amir stringe forte a sé il suo bottino. Il fuoco della mitragliatrice automatica lo raggiunge.
Viene ucciso così. Assieme a lui muore il sorriso sulla sua bocca, la sua fame, la sua disperazione. Conosciamo il volto di Amir e la sua storia perché Aguilar la narra al mondo. Le altre storie e gli altri volti delle persone uccise nei punti di distribuzione non ci è dato conoscerle. Perché uccidere civili nei punti di distribuzione non accade accidentalmente, si tratta di un metodo sistematico. I punti allestiti della Ghf – solo quattro in tutta la Striscia per due milioni di persone – sono grandi spazi circondati da alti cumuli di terra, su cui sono posizionati soldati israeliani, carri armati, e mercenari Usa. Al centro sono ammassati un certo numero di scatoloni con pacchi di cibo, che coprono le necessità di appena il 2 per cento della popolazione. Intorno all’alba, una luce che si accende segnala l’apertura dei cancelli. I palestinesi, privati di ogni dignità, cominciano a correre verso i pacchi nel tentativo di accaparrarsi qualcosa. Molti muoiono ancor prima, schiacciati dalla calca, dal caos assoluto. Nei registri medici di Gaza è comparsa una nuova sigla clinica: Bbo – “Beaten By Others”.
I droni sorvolano l’area e poco dopo avvertono: «Avete ancora cinque minuti». Allo scadere del tempo, ma non necessariamente, iniziano gli spari, a decine di metri di distanza. Un gioco folle, barbaro. In un’intervista di Tucker Carlson pubblicata il 13 agosto, Aguilar dichiara: «L’unico modo per descrivere i siti di distribuzione è che sono trappole mortali. E non sono diventati trappole mortali. Sono stati progettati per essere trappole mortali. Gli Stati Uniti forniscono gli aiuti e noi li attiriamo nella trappola».
Per capire meglio la natura di questi siti di distribuzione abbiamo parlato con il dottor Ismail Al-Thawabta, direttore generale dell’Ufficio stampa governativo della Striscia di Gaza – Palestina. Ismail Al-Thawabta documenta e monitora i crimini dell’occupazione israeliana, emette i comunicati ufficiali che pubblica la rete televisiva al Jazeera e diffonde rapporti informativi sul genocidio in corso.
Per prima cosa gli chiediamo qual è la verità su quella che viene chiamata “Fondazione Umanitaria di Gaza” (Ghf) e qual è lo scopo dichiarato per giustificarne l’attività nella Striscia di Gaza. Ci risponde che la Ghf non è altro che una copertura mascherata di un meccanismo legato all’occupazione israeliana, un nuovo strumento per reingegnerizzare l’assedio e consolidare la politica di fame sistematica contro i civili di Gaza. Si presenta, per ingannare l’opinione pubblica, come un ente umanitario per la distribuzione di aiuti, ma in realtà è uno strumento militare e di sicurezza che agisce secondo l’agenda dell’occupazione. Mira a creare “zone cuscinetto” e trasformare gli aiuti in trappole mortali sotto il pretesto dell’assistenza umanitaria. Ci spiega che i punti di distribuzione stabiliti da questa organizzazione si trovano in aree scoperte dal punto di vista militare e sotto il controllo diretto dell’occupazione, rendendoli bersagli facili per bombardamenti mirati. Inoltre, questo meccanismo priva deliberatamente le istituzioni Onu e le organizzazioni internazionali neutrali del loro ruolo naturale, sostituendole con una gestione diretta da parte dell’occupazione stessa. In questo modo questa istituzione contraddice completamente i principi umanitari fondamentali come neutralità, umanità e imparzialità.
Gli chiediamo quali sono i danni diretti e indiretti causati o potenzialmente causati da questa organizzazione. I danni diretti, spiega, comprendono il mettere in pericolo la vita dei civili mentre cercano di raggiungere i punti di distribuzione e il limitare l’accesso agli aiuti per i veri bisognosi.
Oggi, agosto 2025, si parla di oltre 1.880 martiri e più di 13.860 feriti tra coloro che si sono recati negli ospedali a causa di attacchi subiti mentre tentavano di ottenere cibo. Questi omicidi fanno parte di una strategia deliberata per trasformare i punti di distribuzione in “trappole di omicidio di massa” e per mandare un messaggio di terrore: ottenere cibo può costarti la vita.
I danni indiretti, dice, sono persino più gravi: indebolimento del ruolo dell’Unrwa e delle organizzazioni internazionali legittime, consolidamento dell’occupazione come unico intermediario tra civili e aiuti, prolungamento dell’assedio e disgregazione del tessuto sociale attraverso caos e conflitti per risorse scarse.
Quando Ismail parla non c’è rabbia nelle sue risposte. È un uomo il cui lavoro, ogni giorno, lo pone di fronte alla constatazione che i metodi che progetta Israele per sterminare i palestinesi sono sempre più sadici. Ogni giorno conta quanti innocenti vengono uccisi nei modi più aberranti. Nelle sue risposte, però, tanta ragionevolezza e una profonda consapevolezza: il diritto internazionale sta dalla parte dei palestinesi.
Ci dice infatti che fa la Ghf rappresenta una chiara violazione dell’articolo 23 della Quarta Convenzione di Ginevra, che prevede di non ostacolare il passaggio di aiuti umanitari neutrali. E che viola, come sopra spiegato, i principi di neutralità, integrità, imparzialità e umanità. Il fatto che sia gestita da una forza occupante la rende uno strumento di guerra, non di soccorso, e dunque rientra nel quadro dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra. Alla redazione, invia video di massacri compiuti che confermano le sue parole. «Lo scopo finale è chiaro – conclude – utilizzare la disperazione dei palestinesi per imporre fatti politici».
A confermarlo è la mappa dei punti di distribuzione della Ghf, che colloca tre di essi all’estremo sud della Striscia di Gaza, a Rafah, obbligando persone di tutte le province a percorrere a piedi più di 10 chilometri al giorno per ottenere cibo. Non è un caso, ma una strategia studiata per imporre nuove realtà politiche e favorire lo sfollamento della popolazione civile.
E chi l’avrebbe mai detto che, un giorno, una popolazione stremata dalla fame sarebbe stata oggetto di un gioco della morte? In forma anonima, alcuni soldati israeliani hanno raccontato al quotidiano “Haaretz” che all’interno dell’Idf la procedura di “distribuzione degli aiuti” è chiamata informalmente con il nome israeliano del gioco “un, due, tre, stella”. Un, due, tre, stella. Un gioco. Della morte. Non accade in un universo parallelo. Accade a qualche ora di aereo da casa nostra. Mentre noi apriamo il frigo per noia, un soldato israeliano mira a un gruppo di innocenti in fila per un pugno di farina. È questione di secondi. Un, due, tre, stella. Un crimine di guerra. Un, due, tre, stella. Spari, grida, silenzio. Sacchi di farina insanguinati. L’ennesimo, impunito, crimine contro ogni forma d’umanità.

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