Mondo
14 ottobre, 2025Le parole sono come semi, il tentativo del regime di cancellare la memoria femminile è indice di una paura che sarà la loro rovina, dice Sonia Nassery Cole, regista, scrittrice e attivista
Si cancella la cultura mandando al rogo 840 libri. Libri sulle donne, scritti dalle donne. Si distrugge ogni possibile riferimento a valori di libertà e di emancipazione. Si confinano in casa le ragazze che aspirano a emergere dal buio a cui sono condannate.
In Afghanistan siano tornati indietro. Nel tempo e nella storia. I Taleban l’hanno trascinato ancora nel Medio Evo. Usano il Corano per giustificare l’apartheid. Ma c’è qualcosa di peggiore: sembra che nulla sia accaduto negli ultimi vent’anni. È stata cancellata ogni traccia di un progresso che iniziava a germogliare. Chiuso Internet. Tutto è avvolto da un cupo silenzio.
Si riparte dall’inizio. Dal grido disperato che chiede di nuovo libertà. Quello delle donne, soprattutto, avvolte dal mantello nero della paura. L’ultimo appello arriva ancora una volta dagli Usa. Come 30 anni fa. Da Sonia Nassery Cole, nota regista, scrittrice e attivista. Conosce bene il suo Paese. È stata lei, nel lontano 1982, a scoperchiare per prima la realtà drammatica dell’Afghanistan. Era fuggita da Kabul. Aveva solo quattordici anni. Ha assistito impotente al naufragio. Nessuno sapeva cosa stava accadendo in quella terra lontana, carica di storia, cultura, commercio e di leggendarie resistenze. Tre anni dopo, Nassery Cole ha scritto di suo pugno una lettera al presidente Ronald Reagan. Gli ha raccontato le ingiustizie che subiva l’Afghanistan, gli ha chiesto aiuto. L’ex attore finito alla Casa Bianca si è commosso, l’ha invitata nello Studio Ovale. È stato l’inizio del riscatto culminato nel 2001 con la sconfitta dei Taleban. L’Espresso l’ha intervistata.
In Afghanistan tutto è tornato come prima, signora Cole. Peggio di prima.
«Se guardiamo a quello che accade, sembra proprio così. La decisione dei Taleban di abolire i libri sulle donne, scritti da donne, non è semplicemente una censura. È un attacco alla memoria, alla cultura e all’esistenza intellettuale delle donne afghane. Soffocando queste voci, stanno tentando di cancellare il nostro ruolo nella storia. Definire queste opere “anti-Sharia” significa distorcere la religione, perché l’Islam stesso vanta una gloriosa tradizione di studiosi femminili».
Si è spenta la speranza di una riscossa?
«No. Le parole sono come semi: le donne afghane continueranno a scrivere in esilio, in segreto e in segno di sfida. Le loro voci non possono essere cancellate».
L’intervento degli Stati Uniti è rimasto solo come l’ennesimo caso di occupazione straniera.
«Gli Stati Uniti e i loro alleati sono entrati nel mio Paese promettendo libertà. Ma quando, come donne, abbiamo avuto bisogno ancora di più del loro sostegno siamo state abbandonate. I tanti diritti faticosamente raggiunti sono stati barattati in trattative in cui nessuna di noi aveva diritto di parola».
Diritti tutti cancellati.
«I vent’anni di libertà non sono stati privi di significato. Le ragazze sono diventate dottoresse, le donne hanno aperto attività commerciali, i registi hanno raccontato le loro storie. Quelle esperienze hanno dimostrato che un altro Afghanistan era possibile. La tragedia non è il progresso che avevamo ottenuto, ma essere stati abbandonati dal mondo prima che quel progresso potesse mettere radici».
Durante l’ultimo, devastante terremoto i Taleban hanno proibito perfino di estrarre le donne dalle macerie a meno che non fosse presente un parente stretto.
«Questo indica la misura della loro crudeltà. Costringere le donne a morire sotto le macerie piuttosto che essere toccate da uno sconosciuto non è religione: è barbarie mascherata da fede. Questo è l’apartheid di genere portato all’estremo: alle donne vengono negati non solo l’istruzione o il lavoro, ma anche la salvezza, l’assistenza medica e il diritto alla vita. Devono essere considerati crimini contro l’umanità».
La misoginia affligge ancora i Taleban.
«Al centro del governo talebano c’è la paura: la paura dell’intelligenza delle donne, della loro indipendenza, del loro potere. Questa paura è il motivo per cui chiudono le scuole, bruciano i libri e cancellano le donne dalla vita pubblica. Queste non sono politiche di fiducia, ma di terrore. L’ironia è che le donne afghane sono sempre state una fonte di forza. Dalle poetesse alle combattenti per la libertà, esse sono la spina dorsale della cultura afghana. I talebani temono questo perché sanno che la loro ideologia non può sopravvivere alla verità delle donne. E questa paura, alla fine, sarà la loro rovina».
Si è sentita tradita, come molti dei suoi compatrioti, quando gli Stati Uniti si sono ritirati caoticamente nell’agosto 2021?
«Sì, mi sono sentita tradita; non solo personalmente, ma per milioni di donne e ragazze afghane che avevano creduto nelle promesse di libertà. Per vent’anni ci è stato detto che i diritti delle donne erano fondamentali. E poi, in pochi giorni, tutto è crollato. Le immagini degli afghani aggrappati agli aerei rimarranno nella storia come simboli di abbandono».
Una sconfitta amara.
«Il tradimento non equivale a sconfitta. Quei vent’anni ci hanno mostrato la libertà, e quel ricordo non può essere cancellato. Le donne afghane continuano a resistere, in esilio e in segreto, perché tutte noi sappiamo di meritare di meglio».
Non pensa che esportare la democrazia sia stato un tentativo fallito fin dall’inizio?
«Ciò che è stato condannato è stata l’idea che la democrazia potesse essere calata dal cielo con i carri armati. La democrazia non può essere esportata: deve essere radicata nel suolo del popolo. Ciò che ha fallito è stata l’arroganza di imporre la democrazia senza ascoltare, senza costruire fondamenta sostenibili».
Il burqa rappresenta universalmente l’indumento che imprigiona le donne. Per un popolo con una lunga storia di eccellenza nelle arti, nella cultura, nella storia e nell’istruzione, è la negazione della vita stessa. Ma resiste.
«Il burqa, quando imposto, non è cultura: è una prigione. Cancella le donne, le avvolge nell’oscurità e dice loro che non esistono. Costringere le donne afghane a questa invisibilità significa negare secoli di poesia, arte e storia. Il burqa può coprire i nostri corpi ma non può nascondere il nostro coraggio».
Nel suo film The Black Tulip, racconta il tentativo di una famiglia di iniziare una nuova vita senza i Taleban, un tentativo che alla fine fallisce. Perché?
«Perché questa è la realtà dell’Afghanistan. Ogni tentativo di vivere liberamente è stato annientato dalla violenza, dall’estremismo e dal tradimento. La famiglia nel film rappresenta tutte le famiglie afghane: coraggiose, resilienti, determinate, ma sconfitte da forze più grandi di loro. Volevo che il pubblico sentisse il costo dell’oppressione. Il loro fallimento non è una loro debolezza, è l’incapacità del mondo di proteggerli».
Una donna di un villaggio senza burqa rischierebbe di essere ostracizzata dalle altre donne.
«La tradizione è potente, ma non è il destino. Sì, nei villaggi remoti la pressione è immensa: le donne si sorvegliano a vicenda perché è stato loro insegnato che la sopravvivenza dipende dall’obbedienza. Ma il cambiamento è possibile. Quando una ragazza impara a leggere, diventa un’insegnante per le altre. Quando una madre viene sostenuta, protegge le sue figlie in modo diverso».
Sono costrette al silenzio.
«Le donne afghane non sono silenziose: sono messe a tacere. Ma anche nel silenzio, resistono. Nelle aule segrete, nelle poesie, nei film, nei sussurri, lottano per l’anima del nostro Paese. La paura delle donne da parte dei Taleban è la loro debolezza. Il nostro coraggio è la nostra forza. Con il sostegno del mondo, non saremo cancellate».
I Taleban alla fine sono tornati. Accolti come patrioti.
«I Taleban non sono afghani nello spirito. Molti dei loro leader sono stati formati in madrase straniere e hanno adottato ideologie importate, ideologie che non riflettono la compassione e la cultura della nostra fede. Si proclamano religiosi, ma le loro azioni tradiscono tutto ciò che il Corano insegna sulla misericordia e la sacralità della vita. Sono, di fatto, un’altra forza d’invasione. Straniera quanto i conquistatori del passato. L’Afghanistan è sopravvissuto a imperi e invasori in passato. I loro tentativi di conquistare i nostri cuori e le nostre menti sono falliti. Anche questa volta fallirà. I loro giorni stanno arrivando».
Quale messaggio si sente di dare alle donne afghane?
«A ogni donna afghana dico: continuate a lottare. Non arrendetevi mai. La vostra determinazione durerà per sempre. Combatterò per voi fino all’ultimo respiro. Supereremo questo male che ha preso il controllo della nostra terra libera. Vinceremo. Dio benedica l’Afghanistan».
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