Mondo
22 ottobre, 2025Più produttività e più investimenti dall’estero. Il paese dell’Africa equatoriale vuole triplicare la produzione entro il 2030. E le aziende italiane scommettono su una nuova frontiera ecosostenibile e sul miglioramento delle condizioni di lavoro
Una terra ricca in modo sbalorditivo e una povertà che fatica a scomparire. Nelle piantagioni dei distretti occidentali dell’Uganda, a Ibanda, a Sheema e a Bushenyi verso il confine con il Congo e il Ruanda, dove ci sono i grandi e costosi parchi dei gorilla di montagna, sembra che un seme sputato a caso fra l’erba possa diventare una pianta nel giro di una notte. L’eden equatoriale, per quanto lussureggiante, ha i suoi serpenti, capaci di mutare pelle per sbarrare la strada verso una condizione di vita migliore. E spesso non sono rettili originari della zona. Le quotazioni del caffè sono salite in modo vertiginoso dal marzo 2010, quando i grandi fondi di investimento internazionali hanno iniziato a usare la clava finanziaria sconvolgendo lo spazio delle commodities e portando i prezzi sull’ottovolante della speculazione. Era l’indomani della crisi innescata dal fallimento di Lehman brothers e il gioco d’azzardo dei grandi capitali si è spostato dall’immobiliare al tè, al caffè, all’oro, all’argento, alle terre rare. È un gioco sulla pelle di chi lavora. Il cacao era a 12 mila sterline la tonnellata in dicembre e si è dimezzato di valore. Il caffè robusta valeva un dollaro mezzo al chilo nel 2020 e 4,4 dollari nel 2024 mentre l’arabica, varietà più pregiata, ha oscillato da 3,32 a 5,62 dollari con variazioni mensili talvolta molto forti e previsioni in rialzo per l’ultimo trimestre del 2025.
Il cambiamento climatico, che i contadini ugandesi percepiscono sulla loro pelle meglio di chi guida la Casa Bianca, gli squilibri internazionali e l’ecosostenibilità sono diventati opportunità per il gambling nelle stanze dove nessuno ha mai visto una piantagione di caffè.
«A luglio 2025», dice Mario Bruscino, direttore acquisti di Caffè Borbone, «c’è stato uno strappo al rialzo dopo una gelata nello stato brasiliano di Minas Gerais ma le oscillazioni possono essere all’ordine del giorno. A questo bisogna aggiungere la crisi che ha colpito la rotta commerciale di Suez, causata dalla pirateria e dai ribelli Huthi». Caffè Borbone, fondata nel 1997 da Massimo Renda e leader nelle cialde monouso, lavora in Uganda da appena tre anni. L’ex torrefazione napoletana è già diventata la prima azienda italiana per l’import di caffè crudo. Gli investimenti e la crescita sono stati resi possibili dalla cessione della maggioranza nel 2018 a Italmobiliare, holding di partecipazioni di Carlo Pesenti che, a sua volta, ha ceduto il controllo del gruppo bergamasco Italcementi nel 2015 per 1,67 miliardi di euro. Qualche giorno fa Pesenti ha annunciato l’intenzione di investire ancora in Borbone che ha triplicato i ricavi a 335 milioni l’anno scorso con 37 milioni di utile netto. Renda è rimasto presidente e azionista con il 40 per cento, mentre l’ad è Marco Schiavon.
Combinare gli interessi di chi investe e di chi produce è un’operazione complessa in un paese come l’Uganda. Un coltivatore locale recepisce in modo positivo l’aumento del prezzo, sebbene il meccanismo di trickle-down, il gocciolamento del profitto dal vertice alla base, sia laborioso e lento.
Gli investitori esteri sono disposti ad accettare una riduzione dei margini in cambio del miglioramento della produttività locale, che ha ampi margini. Già nei dati 2024, presentati dal ministero dell’agricoltura, l’Uganda ha sorpassato l’Etiopia come primo produttore africano di robusta con 7,43 milioni di sacchi nel periodo giugno 2024-maggio 2025. Nel periodo 2023-2024 erano 6,08 milioni ma il governo ha fissato per il 2030 l’obiettivo di 20 milioni di sacchi. Oggi il caffè verde porta all’Uganda ricavi per 2,09 miliardi di dollari che, parametrati alle statistiche della Banca mondiale, significano oltre il 4 per cento di un pil 2024 stimato a 53,56 miliardi di dollari, con il settore agricolo che da solo vale oltre un quinto dell’economia. I rendimenti per ettaro, che adesso sono intorno a mezza tonnellata, possono adeguarsi ai livelli dei giganti del caffè robusta come l’India (circa 1,5 tonnellate per ettaro) e il Vietnam (oltre 3 tonnellate). In queste nazioni le piantagioni sono in media di venti e cinque ettari contro il mezzo ettaro dell’Uganda che però, con due raccolte di caffè all’anno a novembre e a maggio, offre una flessibilità sconosciuta ad altri produttori.
Il governo del presidente Yoweri Museweni, 82 anni, in carica dal 1986 e in piena campagna per essere rieletto una settima volta nel gennaio 2026, non è al vertice delle best practices democratiche ma ha aperto agli investitori internazionali per garantirsi consenso attraverso la crescita. Lungo i 400 chilometri che separano i distretti occidentali dalla capitale Kampala le strade in rifacimento o in costruzione sono affidate ai capicantiere cinesi della Cccc (China communications construction company), come in Etiopia o in Namibia e un po’ ovunque nel continente.
Nel caffè il partner di riferimento è l’Italia, con Borbone numero uno negli acquisti appena tre anni dopo l’inizio delle attività commerciali in Uganda. L’azienda bergamasco-napoletana ha strutturato il progetto Mwani women and youth, per consentire la creazione di vivai, diffondere le pratiche agronomiche più avanzate e aggiungere l’istruzione finanziaria basata sul modello microcreditizio ideato dal premio Nobel per l’economia Muhammad Yunus. Nelle interviste con i gruppi Vsla (village savings and loans associations) le contadine raccontano storie di speranza che, valutate sul metro occidentale, sono storie di miseria ma che qua non hanno alternativa: un piccolo prestito per comprare una capra o una scrofa o investire in ortaggi, gli stessi che si trovano in vendita, in piramidi ordinatissime, nei mercati di Kampala, nei villaggi o ai margini della strada. Sono operazioni che equivalgono a pochi euro in un paese dove la benzina costa comunque 1,2 euro al litro e un trilocale in muratura grezza lontano dalla capitale costa quasi dieci mila euro.
Le condizioni generali di chi lavora nel caffè sono largamente migliorabili. In Uganda le donne che puliscono a mano per ore le ultime impurità prima che i chicchi finiscano nei sacchi da sessanta chili e vengano indirizzati verso il porto di Mombasa sono retribuite nell’ordine di un euro al giorno, anche se il loro impegno è prezioso per ottenere l’ambita doppia A nella classificazione qualitativa. La dominanza femminile nella lavorazione del caffè è visibile nelle piantagioni dove Borbone ha lanciato il progetto Mwani in collaborazione con Ofi, una subholding della multinazionale Olam, quotata a Singapore. La casa madre ha ricavi annuali per oltre 56 miliardi di dollari, tre miliardi in più del pil ugandese, lavora in oltre sessanta paesi, oltre novantamila dipendenti e 2,75 milioni di coltivatori tra i fornitori.
L’altro tema della cooperazione fra Borbone e Ofi, che collabora con l’azienda italiana fin dagli anni Novanta, è la sostenibilità.
A differenza del cambiamento climatico, evidente a chi sta nei campi, è un concetto molto più astruso per i contadini. «Eppure», dice Jérémy Dufour, capo della sostenibilità di Ofi, «l’80 per cento delle emissioni di Co2 arriva durante la fase della coltivazione, anche se i fertilizzanti sono poco usati in Uganda perché sono cari».
«Qui ci sono condizioni di mercato favorevoli», aggiunge Suresh Iyer, country manager Ofi per l’Uganda. «Nell’est del Congo c’è il problema della violenza, il Kenya è costoso, l’Etiopia è chiusa agli stranieri, in Burundi bisogna operare in valuta locale con una conversione sfavorevole del dollaro a tassi stabiliti dal governo. In Uganda la concorrenza dei cinesi è forte ma loro operano senza preoccuparsi degli aspetti della sostenibilità che noi stiamo portando avanti anche in India e Vietnam insieme a Borbone, con un programma di riduzione delle emissioni approvato quest’anno dalla Science based targets initiative».
Detto che la competizione con i cinesi è problematica per il peso che gli uomini della Repubblica popolare hanno nella crescita infrastrutturale voluta da Museweni, l’Italia tenta di replicare con il piano Mattei. Gli uomini del caffè sono stati ricevuti nel palazzo presidenziale insieme a Stefano Gatti, direttore per la cooperazione e lo sviluppo della Farnesina. Il 30 settembre l’ambasciatore italiano Mauro Massoni ha firmato con una delegazione governativa un accordo di programma per rafforzare il settore privato da 1,7 milioni di euro. Sono spiccioli per un settore in crescita rapida nel quadro di un paese che punta a raddoppiare la popolazione a cento milioni di abitanti nel 2050.
Nel settore del caffè Museweni ha tentato la strada di una maggiore autonomia creando le sue torrefazioni in collaborazione con gli investitori esteri. Il progetto è rimasto lettera morta perché manca il mercato interno in un paese in cui la manodopera non può permettersi di consumare neppure una frazione di quello che produce. Il bersaglio di una migliore educazione agronomica e finanziaria va a beneficio di tutti, in un sistema produttivo che rimane labour intensive a livello globale. Questo ha creato problemi di sfruttamento minorile che hanno colpito il colosso Starbucks. All’inizio del 2024 il più grande marchio di caffè al mondo è stato accusato in un tribunale civile di Washington di falsa pubblicità per avere detto di acquistare la materia prima in aziende che rispettavano i diritti umani e del lavoro. Anche l’Uganda è stata messa all’indice da rapporti Ilo-Unicef e, l’anno scorso, dal Department of labor degli Usa per avere «fatto passi avanti minimi nello sforzo di eliminare le peggiori forme di lavoro minorile». Creare qualche isola felice in Uganda è uno di questi passi avanti. Piccolo ma da imitare.
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