Mondo
6 novembre, 2025Lavoro minorile, tratta, racket: l’altra faccia dell’economia globale secondo le stime dell’Unicef. È l’infanzia che lavora solo per sopravvivere. Spesso in condizioni disumane
«Avevo solo 14 anni quando sono partita, senza sapere davvero cosa mi aspettasse. Una volta arrivata, ho capito subito che la realtà era ben diversa».
In un mondo ipertecnologico e globalizzato, ci si aspetterebbe che l’infanzia sia ovunque protetta, rispettata, tutelata. Eppure, oggi più di 160 milioni di bambini sono coinvolti in forme di lavoro minorile. Lo dice l’Unicef, lo confermano le storie raccolte sul campo: infanzie interrotte, costrette a caricarsi sulle spalle il peso della povertà, del debito, della sopravvivenza. Le zone più colpite restano l’Asia-Pacifico e l’Africa subsahariana, ma nessun Continente può davvero dirsi immune. Dove le leggi sono fragili, i controlli inesistenti e le culture tradizionali tendono a normalizzare l’idea che un bambino debba lavorare, il lavoro minorile si radica e cresce. Invisibile, silenzioso, accettato.
Alla base di tutto c’è la povertà. Quando una famiglia sopravvive con meno di due dollari al giorno — come avviene per il 40 per cento della popolazione dell’Africa subsahariana — anche le mani di un bambino diventano risorsa, moneta, sacrificio. In questi contesti, andare a scuola non è un diritto: è un privilegio, spesso un ostacolo alla sopravvivenza.
Secondo la Banca Mondiale, 69 milioni di bambini soffrono di malnutrizione, e tre quarti di loro vivono nei Paesi in via di sviluppo. Qui il lavoro minorile non è solo tollerato: è desiderato. Famiglie indebitate, tradizioni sociali, cerimonie religiose da pagare, e quel peso enorme che si trasmette da generazione a generazione, fino a normalizzare perfino la vendita di un figlio. Succede in India, in Nepal, in Bangladesh. E succede nel silenzio. Il lavoro minorile più diffuso è quello familiare: invisibile, difficile da quantificare, ma presente in ogni angolo del mondo. Il 72 per cento dei minori lavoratori si muove tra campi, cucine, stalle e botteghe. Nessun contratto, nessuna paga. Soltanto l’illusione che si tratti di “aiuto”, che non ci sia niente di male. In realtà, sono bambini senza infanzia. E troppo spesso anche senza identità: in molte aree rurali, non vengono nemmeno registrati all’anagrafe. Bambini fantasma, senza voce.
Le cifre sono spietate: più di 122 milioni di bambini lavorano in agricoltura, solo 37 milioni nelle zone urbane. Tra i 5 e gli 11 anni, un bambino su quattro svolge mansioni pericolose per la salute, la sicurezza o la dignità. E chi non va a scuola ha più del doppio delle probabilità di lavorare. E poi ci sono le bambine. Quelle che, in Paesi come Pakistan e Afghanistan, sono costrette ad abbandonare la scuola molto prima dei loro coetanei maschi. Le loro giornate si consumano tra cure domestiche, lavori informali, gravidanze precoci, matrimoni forzati.
Ma c’è anche la tratta. La forma più estrema, più invisibile, più atroce. Ogni anno migliaia di minori vengono sottratti alle loro famiglie con false promesse: un lavoro, un futuro, una cura. Secondo l’Unodoc (United nations office on drugs and crime), nel 2020 quasi 20.000 minori sono stati identificati come vittime di tratta. Ma il numero reale è molto più alto. La percentuale è triplicata in 15 anni.
In Africa subsahariana, i bambini trafficati vengono sfruttati nel lavoro forzato. In America Centrale, le adolescenti finiscono in reti di sfruttamento sessuale. In Asia meridionale, il matrimonio forzato è ancora pratica diffusa. Ma non serve andare lontano: la tratta avviene ovunque. Online, tra le mura domestiche, perfino sotto forma di accordi tra parenti.
Tra le tante voci raccolte dalle Ong, una risuona con forza particolare. Viene dal Laos, ed è la testimonianza diretta di una ragazza oggi diciasettenne, sopravvissuta all’inferno. «Le mie condizioni di vita erano molto difficili. Dopo il divorzio dei miei genitori, sono rimasta incinta. In quel momento non sapevo cosa fare, ero completamente persa. Nel mio villaggio si parlava spesso di un’opportunità di lavoro in Thailandia: molti dicevano che si poteva guadagnare bene, e con quei soldi avrei potuto prendermi cura di mio figlio». G. aveva solo 14 anni quando è partita, senza sapere davvero cosa l’aspettasse. «Appena arrivata, ho capito che la realtà era molto diversa da quanto mi era stato raccontato. Ho cominciato a lavorare in un bar, insieme ad altre ragazze. Essendo incinta, all’inizio mi occupavo solo dell’accoglienza, mentre le altre venivano mandate nelle stanze con i clienti, anche due alla volta. Non eravamo libere: ci trattavano come se fossimo di loro proprietà». Dopo la nascita di suo figlio, ha continuato a lavorare lì.
«Avevano pagato le spese mediche, ma tutto era stato aggiunto al mio debito. Ogni giorno e ogni notte sembravano uguali, scanditi da minacce e violenze. Alla fine ho trovato il coraggio di chiedere aiuto a mia zia, che si è rivolta a una Ong thailandese. Sono stati loro a salvarmi». In seguito, anche in Laos G. ha ricevuto sostegno: supporto psicologico e formazione per diventare parrucchiera. «Oggi mio figlio ha tre anni. Lavoro in un salone insieme a un’altra donna, anche lei una ex vittima. Ho un compagno che ha accettato la mia storia. Il mio sogno è aprire un salone tutto mio e avviare un’attività online»
Non tutte le storie hanno un lieto fine. Molti bambini non riescono a uscire dal sistema. Alcuni sviluppano dipendenze, altri vengono isolati, dimenticati. Le Ong fanno un lavoro fondamentale, ma da sole non bastano. Serve un cambiamento profondo. Perché dietro ogni numero, ogni percentuale, c’è una voce. Un nome. Un’infanzia spezzata. Una storia che sarebbe potuta andare diversamente.
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