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6 novembre, 2025Sottratti a famiglie disagiate e poi scomparsi. In larga parte sono stati affidati a famiglie europee
È dicembre del 2014. È una mattina come tante a Coyhaique, un piccolo comune rurale nell’estrema Patagonia cilena, quando una donna si avvicina alla cattedrale della città e si incatena davanti alla porta. Si chiama Yohana Oyarzo, ha 31 anni, intorno a lei cominciano a radunarsi curiosi e poliziotti. Grida che rimarrà in catene fino a quando non le ridaranno i suoi tre figli. Le forze dell’ordine la portano via ma non sanno che quello è solo l’inizio. Yohana comincerà un lungo sciopero della fame e assieme a lei lo faranno altre decine di donne della zona, tutte per la stessa – agghiacciante – ragione: l’adozione illegale dei loro figli. E tutte denunciano lo stesso orfanotrofio, l’hogar Eleonora Giorgi di Puerto Aysén.
Puerto Aysén e Coyhaique sono comuni confinanti, aree difficili, isolate e con alti indici di povertà. Le strade di Puerto Aysén sono circondate da case fatiscenti e trovare l’hogar Eleonora Giorgi è difficile. Chiedendo informazioni, un commerciante del posto risponde: «State cercando l’orfanotrofio da cui rubavano bambini? Qui tutte le famiglie hanno una storia legata all’hogar. È successo anche alla sorella di mia suocera, e se andate al porto – dove lavora la maggior parte delle donne del luogo – vedrete che tutte hanno una storia da raccontare».
Storie che ci portano in Italia, perché la struttura è gestita dalle suore della congregazione religiosa italiana Serve di Maria Addolorata e ha iniziato a ospitare bambini il 20 novembre del 1990. La responsabile, inoltre, è suor Augusta Pedrielli, lontana cugina del tenore Luciano Pavarotti che alla fine degli anni ’80 aveva finanziato l’acquisto del terreno su cui è stato costruito l’orfanotrofio.
L’incubo per Yohana inizia nel 2010, quando gli assistenti sociali la denunciano per presunta negligenza verso i figli Gabriel, Benjamin ed Erick, allora di 4, 3 e 1 anno. Poco dopo i bambini vengono affidati all’hogar Eleonora Giorgi e nel 2012 inizia il processo per la loro adozione. «Sono cresciuta in un ambiente povero e violento – racconta la donna – e all’epoca avevamo difficoltà economiche. Ho commesso errori, ma ho sempre fatto di tutto per loro. Il mio ex aveva problemi con l’alcol, ma la mia unica colpa è stata andare a prenderli a scuola in ritardo per motivi di lavoro».
Quando inizia il processo, Yohana e il suo ex compagno si impegnano per fare quanto richiesto dal giudice per riavere la custodia dei loro figli. Inutilmente. «Quando andavo a trovarli – spiega – mi raccontavano che le suore dicevano loro che presto sarebbero partiti per un altro Paese, dove c’erano dei nuovi genitori ad aspettarli. Dicevano ai miei figli cose terribili su di me, ci chiamavano alcolizzati». Ed è proprio durante una delle visite che a Yohana i bambini confidano che uno di loro è stato abusato sessualmente da una bambina più grande all’interno dell’hogar. «Ho denunciato l’accaduto ai giudici che seguivano la mia causa, ma mi hanno chiuso la porta in faccia», dice.
Non solo: i figli di Yohana raccontavano anche di essere stati picchiati. «Mi hanno tolto i bambini accusandomi di maltrattarli – dice – e poi li portano in un luogo dove subiscono davvero abusi, oltretutto sotto tutela dello Stato». Purtroppo il suo non è un caso isolato in Cile: negli ultimi anni nel Paese è emerso uno scandalo su 20.000 minori dati illegalmente in adozione a coppie straniere, soprattutto europee. Anche se la stampa si è concentrata sui casi della dittatura di Pinochet (1973-1990), le denunce di irregolarità continuano ancora oggi, come dimostra il caso di Yohana.
Il modus operandi e le vittime sembrano essere sempre simili: famiglie poverissime, spesso madri single, in aree marginalizzate. Un ex dipendente del Sename (l’ente che per lo Stato cileno gestisce tutto ciò che ha a che vedere con l’infanzia, comprese le adozioni), sotto anonimato, riferisce che il metodo più usato per dare i bambini in adozione è farli risultare «abbandonati»: per legge, basta che i genitori non li visitino per 2 mesi, o 30 giorni se hanno meno di un anno. «A me hanno detto che gli assistenti sociali e orfanotrofi corrotti ricevono circa 10mila euro per bambino – rivela – e quando il genitore arriva, dicono che il minore è impegnato, finché risulta abbandonato».
Proprio il metodo usato nel caso di Yohana, che ricorda: «Secondo il tribunale i miei figli sono stati dati in adozione per abbandono perché dall’hogar hanno dichiarato che non li andavo a trovare. Ma c’era un quaderno delle visite che io ho firmato regolarmente, tutte le settimane, per tre anni. Nonostante le mie proteste, non è stato usato come prova». La donna ha fatto tutto ciò che poteva per riavere la custodia dei suoi figli, però non è servito. Né la protesta, né lo sciopero della fame o la denuncia alla Camera dell’allora deputato cileno Ramón Farías. Oggi Yohana sa che i suoi figli sono stati adottati da una coppia di cittadini francesi e vivono in Francia, ma non ha mai potuto mettersi in contatto con loro. «Vedermi portare via i miei figli è stato atroce, non volevo più vivere – dice oggi Yohana – poi però mi sono rimessa in piedi. L’ho fatto per i miei figli, perché spero che un giorno torneranno da me».
Le proteste di Yohana e le denunce delle altre mamme hanno portato alla chiusura dell’istituto, ma sul muro rosso dell’edificio spicca ancora la scritta “Hogar del niño Eleonora Giorgi”. Suonando al campanello, risponde suor Josefina. Minuta e anziana, è una delle tre religiose che vive nell’istituto. L’edificio è grande, ha molte stanze, una cappella, un ampio patio e spazio esterno. L’orfanotrofio è vuoto, ma è ordinatissimo e ci sono ancora copertine, giochi e libri per bambini, vestitini e fasciatoi.
Ad accompagnare Josefína c’è suor Augusta, che conferma di aver ricevuto da Luciano Pavarotti i soldi per comprare il terreno su cui è stato costruito l’orfanotrofio finito al centro dello scandalo. Come spiega Cristina Pavarotti, figlia del tenore raggiunta telefonicamente: «Dai ricordi di famiglia, posso affermare che, tra il 1989 e il ’90/’91 mio padre entrò in contatto con suor Augusta e dispose l’invio di diversi beni. Della donazione per l’acquisto del terreno menzionata dalla stampa cilena dell’epoca non c’è testimonianza in archivio, pertanto non posso confermarla ma la ritengo probabile».
Le due religiose dicono che l’orfanotrofio veniva preso come «modello», assicurano che «non lavoriamo per i soldi, ma per fare del bene» e ricordano che «ci sono state perfino persone che ci hanno accusato di rubare i bambini». Alla richiesta di spiegazioni sulle denunce e la successiva chiusura dell’istituto, le sorelle rispondono di non avere «responsabilità» e che «a decidere sono sempre stati i tribunali cileni».
Le mamme che hanno denunciato l’hogar raccontano tutte storie molto simili: maltrattamenti all’interno dell’orfanotrofio, discriminazione da parte delle suore, rifiuto di far vedere loro i bambini solo perché a volte arrivavano in ritardo alle visite (molte dovevano andare a piedi o con l’autostop, non avendo i soldi per l’autobus). Le due monache insistono nel dire che sono bugie, e che «c’è un’altra versione della storia», e accusano le madri di negligenza. Dicono che la maggior parte dei bambini è stata reinserita nelle famiglie di origine perché a loro «interessava aiutare le famiglie». Ma dai documenti risultano altri numeri: dal 2004 al 2014, su 59 bambini che sono stati affidati all’hogar dallo Stato, 37 sono stati adottati e solo 16 sono potuti tornare alla loro famiglia biologica.
Yohana è l’unica, tra le madri che hanno sporto denuncia, a sapere dove siano finiti i suoi figli. Non l’ha saputo dalle suore, ma grazie ad alcuni documenti di cui è entrata in possesso. Le altre non sono state così fortunate. Hanno provato a chiedere alle religiose, senza successo. Ma in una stanzetta dell’orfanotrofio, su uno scaffale, ci sono vari quaderni ad anelli. Suor Augusta li prende e inizia a sfogliarli. Su ogni pagina ci sono le foto dei bambini che hanno vissuto nell’hogar. «In questi anni – dice Augusta – abbiamo ricevuto quasi 600 bambini. Teniamo molto ai nostri ragazzi. Continuiamo a stare in contatto con loro, sa? È importante per noi sapere dove vanno, in che famiglia e se stanno bene».
Questa inchiesta è stata realizzata grazie all’appoggio dei grants europei Journalismfund e IJ4EU, co-finanziati dall’Unione Europea
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