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6 novembre, 2025Un anno fa la strage alla stazione di Novi Sad e l’inizio della più longeva protesta studentesca. Che punta alle dimissioni del presidente Vučić, emblema di un sistema corrotto
Dodici mesi, sedici vittime, nessun responsabile. Uno striscione posizionato accanto alla stazione dei treni di Novi Sad, accompagnato dall’impronta di due mani sporche di sangue, riassume lo scontro politico e culturale in atto in Serbia dove, dal 1° novembre 2024, quando il crollo di una tettoia di cemento della stazione ferroviaria causò la morte di 16 persone, va in scena la più estesa protesta studentesca della moderna storia europea. Nata come una contestazione contro l’ennesimo caso di corruzione governativa – il misterioso accordo tra Serbia e Cina, le cui aziende erano coinvolte nella costruzione della stazione – si è nel tempo trasformata in qualcosa di più grande: un diffuso movimento popolare contro un sistema considerato corrotto e incapace di cambiare e che ha iniziato a chiedere a gran voce elezioni anticipate e le dimissioni del presidente Aleksandar Vučić. Un affarista che ha nel suo curriculum un passato da estremista di destra a fianco di Slobodan Milosevic, del quale fu ministro dell’informazione alla fine degli anni Novanta, e che pur di non perdere il potere sta conducendo il Paese verso una pericolosa deriva autoritaria, alzando il livello di repressione, utilizzando i media come un’arma di propaganda, licenziando professori e insegnanti che appoggiano la protesta e spedendo in piazza i criminali a libro paga per reprimere pacifiche contestazioni. I rumors raccontano che li faccia persino uscire di galera in gita premio. Il tutto nel silenzio di un’Unione Europea che al di là di qualche risoluzione del Parlamento sembra preferire una presunta stabilità regionale alle ragioni dello Stato di diritto.
Negli ultimi mesi sono stati centinaia gli studenti arrestati, e feriti, durante le proteste, quasi sempre senza un valido motivo. «Sono stata rapita e arrestata in mezzo alla strada durante una manifestazione. Mi hanno buttato per terra, legato le mani dietro la schiena, interrogata, picchiata e insultata», racconta Nikolina Sindjelic, ventiduenne studentessa di marketing all’Università di Belgrado, divenuta suo malgrado uno dei simboli di una protesta che non prevede leader, dove i portavoce cambiano continuamente, per motivi di sicurezza, e tutte le decisioni operative vengono prese durante le assemblee plenarie (ogni facoltà ha la sua) che si svolgono settimanalmente. Qualcosa di sorprendentemente vicino alla democrazia diretta. Nikolina, su suggerimento del suo avvocato, ha raccontato la sua storia alla televisione N1, una delle poche realtà indipendenti rimaste del Paese, e da allora è stata oggetto di una campagna di odio da parte dei media governativi. Insulti, minacce, foto private fatte circolare sui teleschermi. «Mi hanno massacrata. Ci sono giorni che vorrei solo piangere e non uscire di casa, dormo male e ho spesso attacchi d’ansia».
Dopo un anno di occupazione, le università hanno riaperto e le cosiddette blokade, i blocchi quotidiani di strade o ponti che hanno contraddistinto i primi tempi della protesta, sono in diminuzione, ma l’atmosfera nel Paese resta pesante e gli studenti non sembrano disposti a fare passi indietro, non fino a quando Vučić presenterà le dimissioni. Solo allora e non prima, per evitare rappresaglie, verrà resa pubblica la lista elettorale autonoma a cui stanno lavorando e che sarà composta da 250 nomi della società civile, scelti con il metodo delle plenarie. E con regole rigide: niente studenti, né persone che hanno fatto parte di una coalizione di governo, che sono attualmente funzionari di partiti d’opposizione o che hanno avuto in passato problemi con la giustizia.
«Sarebbe bastato soddisfare le nostre richieste, chiedevamo solo un’assunzione di responsabilità, ma hanno preferito la violenza e la repressione», sottolinea Mariya, studente di fotografia all’Accademia di Belle Arti di Novi Sad, dove sabato 1° novembre i ragazzi venuti da tutto il Paese ricordano la tragedia dello scorso anno. «Proveranno a boicottarci in ogni modo, ma saremo lì, a qualunque costo», aggiunge Mariya, fiduciosa che quella di Novi Sad possa trasformarsi nella più grande manifestazione della storia serba.
«Nessuno sogna la rivoluzione novecentesca o vuole la distruzione dello Stato, chiediamo solo una Serbia democratica, come è scritto nella nostra Costituzione», dice Savo Manojlovic, dell’associazione Kreni-Promeni, la più influente del Paese, che fornisce anche supporto legale agli studenti. «Questo governo ha dimostrato di non essere al servizio del cittadino e ha completamente perso la capacità di governare la società. Stanno calpestando lo Stato di diritto e hanno smarrito ogni forma di credibilità. Non so quanto Vučić possa andare avanti ma è evidente che siamo di fronte a una rottura del contratto sociale tra popolo e Stato».
Dietro le quinte si racconta di un presidente consumato dalla pressione, che quando non va ubriaco in tv a insultare gli studenti è pronto a delineare improbabili cospirazioni euro-americane per destabilizzare il Paese. Il leader del partito progressista serbo faceva affidamento sulla stanchezza della popolazione, dopo un lungo anno di blocchi e proteste, ma i numeri sembrano dargli torto. Gli ultimi sondaggi elaborati del Center for research, transparency and Accountability (Crta) racontano che quasi tutte le categorie socio-economiche, ad eccezione degli over 61 anni, percepiscono le richieste degli studenti come ancora insoddisfatte, e che il sostegno al movimento è rimasto pressoché stabile nel tempo, intorno al 60 per cento.
«Gli studenti sono stati bravi a coltivare l’immagine di un autentico movimento civico e ciò ha rafforzato la fiducia del pubblico nelle loro intenzioni», spiega Strahinja Subotić, dello European policy centre di Belgrado. E il loro rifiuto «di essere cooptati dalle élite politiche gli ha conferito credibilità morale e una legittimazione di ampia portata, entrambe rare nel contesto della vita politica serba».
Un sostegno largo ed eterogeneo che negli ultimi dodici mesi ha coinvolto diversi settori della società, dai lavoratori della cultura, molto attivi nella protesta, ai tassisti, dalle associazioni sanitarie agli agricoltori, che con i loro trattori hanno più volte fatto da scudo protettivo quando si è trattato di organizzare blokade nei luoghi cittadini. E persino un eroe nazionale come Novak Djokovic, storicamente molto vicino agli ambienti del nazionalismo serbo, fiutando il cambiamento, ha più volte lasciato intendere di essere dalla parte degli studenti. Al punto che qualcuno ha iniziato a bisbigliare di una possibile corsa futura alla presidenza. Per ora si è trasferito ad Atene insieme con il torneo di tennis gestito dalla famiglia che aveva sede a Belgrado. Piccoli segnali.
Anja Mijovic, sceneggiatrice e scrittrice serba molto conosciuta in patria, era una giovane ragazza con un figlio di appena un anno quando partecipò nell’ottobre del 2000 alla protesta che portò alla caduta di Milosevic. In mano aveva un cartello con una scritta poi divenuta famosa: “Belgrade is the World”. «Siamo sempre lì, lo scenario è lo stesso, è triste ma non è cambiato molto dagli anni Novanta. Io per aver scritto alcuni articoli critici contro il governo sono stata minacciata e non riesco più a trovare lavoro come sceneggiatrice. Per favore, scrivilo, Vučić è un pericoloso sociopatico». Nonostante una deambulazione divenuta problematica, Anja nei mesi scorsi è tornata in piazza, venticinque anni dopo. Ha solo aggiornato il cartello: “Belgrade is the World. Again”.
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