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28 novembre, 2025Avvistata, fotografata e non mostrata dalla Nasa fino alla conclusione dello shutdown, ha alimentato le più antiche fantasie. Il 19 dicembre la cometa interstellare saluterà la terra
Non serve essere ufologi per capire perché 3I/Atlas ci abbia ipnotizzati. È bastato il suo passaggio per riattivare quella miscela antica di paure e fantasie con cui, da sempre, l’umanità scruta il cielo. Siamo soli? La domanda resta lì, sospesa nel vuoto, mentre continuiamo a non trovare tracce di altre intelligenze. Il Paradosso di Fermi ce lo sbatte in faccia da decenni. Eppure, come ripete spesso il fisico-rockstar Brian Cox, scoprire di non essere gli unici sarebbe un gran sollievo: vorrebbe dire condividere l’enorme peso del significato stesso di un’intera galassia.
Per ora, però, il fardello resta tutto sulle nostre spalle. Perché 3I/Atlas, dicono alla Nasa, sembra una cometa, si comporta come una cometa e cometa è. Un piccolo corpo celeste primordiale composto di ghiaccio, polvere, gas congelati e frammenti di roccia che, avvicinandosi a una stella, si riscalda e libera parte del suo materiale, dispiegando la caratteristica coda luminosa.
Ma 3I/Atlas, avvistata inizialmente a luglio, è un oggetto interstellare: arriva da un altro sistema planetario, da un angolo remoto della Via Lattea. È solo il terzo di questo tipo mai identificato, dopo 1I/’Oumuamua nel 2017 e 2I/Borisov nel 2019. «Questo non vuole dire che non ne siano passati altri, semplicemente non li abbiamo visti perché non avevamo la rete di telescopi e le capacità che ci sono oggi», dice a L’Espresso Sara Faggi, astronoma fiorentina in forze presso il Goddard space flight center della Nasa, alle porte di Washington.
Il nome è un omaggio al telescopio cileno che l’ha sorpresa per primo. «Il sistema Atlas (Asteroid terrestrial-impact last alert system) l’ha scoperta a luglio. Nei mesi successivi, ci sono state moltissime osservazioni, sia con telescopi da terra, che dallo spazio. Tutti i mezzi a nostra disposizione, grandi e piccoli, hanno rivolto lo sguardo a questo nuovo visitatore interstellare», afferma Faggi. A inseguirlo, infatti, sono stati una ventina di team, ciascuno con strumenti e competenze diverse, nonostante nessuna sonda sia stata progettata per immortalare un oggetto che sfreccia fin oltre 240.000 chilometri l’ora.
«Quelle che chiamiamo comete, nel nostro Sistema solare, non sono altro che i residui della formazione planetaria», spiega la professoressa che è anche docente associata dell’American University. La scienziata ha lavorato con vari osservatori astronomici tra cui il James Webb space telescope, il più grande e potente telescopio mai lanciato nello spazio. All’interno del gruppo si è occupata dell’analisi dei dati spettrali provenienti da diversi corpi del Sistema solare, come le comete appunto, ma anche le lune ghiacciate e Marte, contribuendo a decifrare la loro composizione e la loro evoluzione.
«Le comete sono rimaste, per miliardi di anni, in orbita nelle zone più lontane (e fredde) del nostro Sistema solare, conservando, come in un congelatore, la composizione primordiale. Per cui, se studiare le nostre comete ci permette di capire come il nostro Sistema Solare si è formato, analizzarne una interstellare ci apre una finestra sulla formazione e l’evoluzione di un altro Sistema planetario».
L’età di 3I/Atlas resta un enigma, ma la velocità con cui sfreccia suggerisce una provenienza da ere precedenti alla storia del nostro Sistema solare, che di anni ne conta 4,6 miliardi. Insomma, si tratta di una capsula del tempo che potrebbe misurare da poche centinaia di metri a diversi chilometri di diametro. Le prime analisi spettroscopiche indicano differenze notevoli rispetto alle comete di “casa nostra”, tra cui il rapporto anidride carbonica/acqua e il rapporto nichel/ferro. Sono segnali che suggeriscono una composizione chimica distinta.
«La comunità scientifica pensa che la cometa interstellare si possa essere formata da una nube di polveri e gas con bassa metallicità. Questo può corrispondere infatti a una popolazione stellare molto vecchia della nostra galassia e precedente alla popolazione di cui il nostro Sole fa parte; tutte queste differenze osservate non sono affatto strane, ma anzi del tutto consistenti con un ambiente di formazione diverso dal nostro», spiega la professoressa. «È molto difficile studiare altri sistemi planetari nella nostra galassia, per cui le osservazioni astronomiche delle loro comete, meravigliosi viaggiatori interstellari, e dei resti della loro formazione planetaria sono fondamentali alla comprensione della fisica e della chimica che stanno alla base della loro nascita e della loro evoluzione». Il 2 ottobre 3I/Atlas è passata a 29 milioni di chilometri dal Pianeta Rosso e l’orbiter europeo ExoMars trace gas tra gli altri ha catturato immagini decisive. Anche le sonde Nasa l’hanno ripresa, ma lo shutdown del governo americano ha congelato tutto: nessuna foto, nessuna conferma. Quel silenzio ha acceso la fantasia terrestre. Solo il 19 novembre, a shutdown concluso, la Nasa ha potuto diffondere le immagini.
Intanto 3I/Atlas era già diventata una “stella” mediatica, sospettata di essere un’astronave mascherata da cometa. A far decollare la narrazione è stato soprattutto Avi Loeb, astrofisico di Harvard, studioso di buchi neri e materia oscura, ma in anni recenti evangelista dell’ipotesi extraterrestre, tanto da fondare il Galileo Project. È lui ad aver suggerito che 3I/Atlas potesse essere il Cavallo di Troia di una civiltà aliena. Un’idea rilanciata in interviste e in una lunga ospitata nel popolarissimo podcast di Joe Rogan.
Neil deGrasse Tyson, forse il più famoso astrofisico americano, quello che ha declassato Plutone per intenderci, ha definito Loeb il collega vicino agli alieni, scherzando sulle centinaia di messaggi allarmati ricevuti dopo le esternazioni clickbait del ricercatore. L’effetto-Loeb è facile da capire: mescola la nostra curiosità atavica con la tentazione moderna del sospetto complottista, l’idea che “loro” stiano nascondendo la verità.
«Una cometa è una cometa. Non credo ci sia molto da fantasticare sulle origini aliene», ci dice Giuseppe Cataldo, ingegnere italiano della Nasa coinvolto nella progettazione e nel collaudo del telescopio spaziale James Webb. «Per quanto riguarda la vita nell’universo, su altri corpi celesti, quello è ovviamente un tema di ricerca molto attuale, ampio. L’astrobiologia è una disciplina in continua espansione», sottolinea Cataldo, che oggi guida il programma di ricerca e sviluppo tecnologico della Mechanical systems division del Nasa Goddard che pianifica gli investimenti strategici dei prossimi anni, costruendo anche partnership con università e industria.
«Ad esempio, grazie a strumenti come quelli del telescopio James Webb, oggi possiamo analizzare pianeti situati ben oltre il nostro Sistema solare, studiarne la composizione chimica e valutare se abbiano le condizioni per poter ospitare la vita. Si tratta di indagini che andranno avanti ancora per molti anni». E presto avremo un altro strumento fondamentale. «Il telescopio Roman, il cui lancio è previsto tra due anni. Sarà il primo in grado di fotografare direttamente pianeti extrasolari, permettendoci di osservarne l’aspetto e fornendo indizi preziosi sull’abitabilità di quei mondi che abbiamo già individuato e che vogliamo analizzare più da vicino».
Per il “saluto” di 3I/Atlas alla Terra bisognerà aspettare il 19 dicembre. Un passaggio lontanissimo, quasi due volte la distanza tra il Sole e il nostro pianeta, sufficiente per garantirci un bello spettacolo astronomico, ma senza rischi.
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