Mondo
17 dicembre, 2025I capi delle Big Tech con forti interessi nei media hanno preso via via le distanze dalla Casa Bianca. Criticando le scelte del tycoon. Con Musk ricucitura in nome dell’antieuropeismo
La “photo opportunity” dell’anno è stata il giuramento di Donald Trump del 20 gennaio 2025. Non tanto per la solennità dell’evento, tenutosi nell’aula del Congresso e non sulla scalinata del Campidoglio causa meteo, bensì per lo schieramento mai visto di capitani d’industria dell’hi-tech, tutti rigorosamente multimiliardari. Schierati a fianco del presidente come scolaretti della classe V B, non certo avari di applausi, sorridenti ed entusiasti, salutavano carichi di fiducia il presidente più “pro-business” della storia. Sennonché i fatti che si sono dipanati nel corso del 2025 hanno vanificato tante speranze.
Ma quel giorno a Washington si respirava solo ottimismo. Jeff Bezos, per esempio, sedeva in prima fila sfoderando il suo proverbiale sorriso a 32 denti mano nella mano con la fidanzata Lauren Sanchez che avrebbe sposato a Venezia di lì a pochi mesi. Il quinto uomo più ricco del mondo (secondo la classifica “Real-Time Billionaires” di Forbes aggiornata al 6 dicembre) con 241,3 miliardi di patrimonio, il fondatore di Amazon che sta conoscendo una nuova giovinezza con gli investimenti nell’intelligenza artificiale e che possiede tra le mille province del suo impero il Washington Post, era partito lancia in resta con un sostegno incondizionato a Trump. Aveva addirittura emanato un diktat vietando al quotidiano democratico per antonomasia, il giornale dei Pentagon Papers e del Watergate, di pubblicare articoli contrari a Trump durante la campagna elettorale. Proteste, scioperi, dimissioni a catena non l’avevano fermato. Ma con il passare dei mesi i rapporti si sono raffreddati, Bezos ha mollato le redini e il “Post” ha ricominciato a pubblicare gli articoli liberi, critici e indipendenti di sempre.
Ma il vero protagonista della cerimonia era Elon Musk, il patron di Tesla, Space X, il re dei social network Twitter o X che dir si voglia, e tante altre cose che lo rendono con 496,5 miliardi di fortuna personale l’uomo più ricco del mondo. Con 100 milioni di dollari è stato di gran lunga il maggior finanziatore della campagna di Trump oltre che un ideologo radicale del “meno Stato più mercato”. Al punto che il presidente aveva creato per lui il Doge, Department of government efficiency, e Musk aveva preso molto sul serio l’incarico cominciando a tagliare con il machete gli organici degli uffici pubblici e sacrificando perfino le agenzie umanitarie. Senonché il protagonismo egoriferito di due personaggi come Trump e Musk aveva cominciato da subito a generare dubbi sulla loro coesistenza. E infatti è andata a finire malissimo, con insulti e allusioni da una parte e dall’altra solo in parte ritrattati (il più inquietante quello sui rapporti mai completamente chiariti di Trump con il finanziere pedofilo Jeffrey Epstein). La rottura è avvenuta in estate ed è culminata con la minaccia da parte di Musk di entrare in politica con un suo nuovo partito conservatore, ipotesi devastante per Trump perché pescava nella stessa base elettorale. Il presidente ha risposto cancellando il Doge dalla gerenza dell’Amministrazione (i duecento dipendenti che gli erano stati assegnati sono stati licenziati), poi addirittura privando Musk delle credenziali di accesso alla Casa Bianca. Senonché l’autunno ha portato a sorpresa a una lenta pacificazione fra i due. Il 5 dicembre, mentre su Washington infuriava una nevicata storica, Musk è intervenuto nella polemica del giorno, e cioè la pubblicazione delle 33 pagine del rapporto “National security strategy-2025” in cui l’Amministrazione faceva a pezzi l’Europa sostenendo che l’unica speranza sarebbero i partiti di estrema destra quali l’AfD tedesca o il Rassemblement National di Marine Le Pen, e tirando in ballo nientemeno che Michel Foucault come l’antesignano dell’odiatissima cultura “Woke”. Bene, Musk ha rincarato la dose: «Sarebbe meglio che l’Unione europea si togliesse di mezzo», ha asseverato il patron di Tesla. Sovranismo quintessenziale.
Un altro rapporto inizialmente idilliaco ma poi andato a rotoli (e non recuperato) è quello di Trump con Rupert Murdoch, 94 anni, signore dei media con giornali e tv che fino a ieri facevano da megafono al presidente. Invece la musica è cambiata. Il Wall Street Journal, punta di diamante dell’impero di Murdoch, dopo aver definito «una stupidaggine» la politica dei dazi, ha commentato a proposito del rapporto-shock sulla Sicurezza nazionale: «Gli Stati Uniti capovolgono la storia definendo l’Europa e non la Russia come il cattivo». Non è finita: il 6 dicembre dopo aver definito ancora una volta «un cretino» il giornalista che gli aveva rivolto una domanda scomoda, Trump si è rivolto alla platea dei reporter con queste parole: «Per favore, identificatemi l’autore di questa domanda e accompagnatelo all’uscita». Solo che il giornalista in questione apparteneva alla Fox News, la rete televisiva preferita dal presidente, anch’essa di proprietà di Murdoch, con la quale evidentemente ora i rapporti cambieranno.
Un altro protagonista di quel pomeriggio alla Casa Bianca è Sundar Pichai, all’anagrafe Pichai Sundararajan, indiano naturalizzato statunitense, amministratore delegato di Alphabet, la casamadre di Google fondata da Larry Page e Sergeij Brin (presenti anche loro al giuramento). Anche Alphabet ha investito massicciamente nell’Ia ed è stato fra i primi a utilizzare gli «algoritmi di trasformazione» con istruzioni apprese direttamente dal computer per risolvere problemi e prendere decisioni invece di eseguire solo comandi pre-programmati. Ora il passo cruciale: Google ha cominciato a produrre i chip che servono ai computer dell’intelligenza artificiale in concorrenza con il colosso Nvidia, che infatti ha perso il 3 per cento della sua quota di mercato in poche settimane con la prospettiva di scendere ancora in tempi brevi. Tutto questo non fa certo piacere a Jen-Hsun Huang, presente naturalmente all’inaugurazione, ceo di Nvidia e uno degli uomini più vicini al presidente. Insieme avevano concordato l’inusuale pratica dei «dazi preventivi»: Nvidia, in cambio del permesso da Trump di vendere alla Cina alcuni dei chip più avanzati, si era impegnata a versare nelle casse federali il 15 per cento del fatturato previsto. Un accordo che era stato imitato anche da Apple, rappresentata nella cerimonia al Congresso dal ceo Tim Cook, del quale si sono però perse le tracce così come dell’amicizia con Trump.
E che dire di Bill Gates, con il quale la separazione è stata plateale? La distanza da Trump è quasi antropologica: tanto quanto il presidente è “bullish”, arrogante, prepotente e guerrafondaio (malgrado punti al Nobel per la pace), così il fondatore di Microsoft è diventato il vessillifero dei filantropi. La Fondazione che ha creato nel 2000 con l’allora moglie Melinda Ann French è la più grande “charity” del mondo. Dotata di un capitale iniziale di 20 miliardi, negli anni è stata ripetutamente rifinanziata dai fondatori e da altri donatori – a partire dall’altro megamiliardario Warren Buffett – e ha investito finora 58,7 miliardi in iniziative rivolte alla salute e alla riduzione della povertà nei Paesi in via di sviluppo soprattutto dell’Africa subsahariana. Proprio qui è scoppiato lo scontro irreparabile con Trump, del quale pure aveva finanziato la campagna elettorale in un afflato di malriposta fiducia: quando l’inquilino della Casa Bianca ha chiuso, su suggerimento di Musk, le agenzie benefiche UsAid e International development, Gates si è scagliato pubblicamente contro l’iniziativa definendola un «gigantesco errore» e rendendo noto un report della stessa Gates foundation secondo il quale nel 2025 saranno morti di fame e malattie da malnutrizione 200mila bambini sotto i cinque anni in più rispetto al 2024. Gates ha accusato per questo disastro la riduzione del 27 per cento degli aiuti per la salute globale provenienti sia dai privati che dai Paesi più ricchi a partire dagli Usa. Dopodiché ha chiuso qualsiasi canale di comunicazione con la Casa Bianca, e per ripicca ha intensificato l’attività di un’altra sua iniziativa, la “Giving pledge”, finalizzata sempre ad aiutare i Paesi più poveri: Gates si è impegnato a cedere il 95 per cento della sua fortuna, e l’amico di sempre Buffett (che ha 95 anni) quasi il 99 per cento delle azioni in suo possesso. Le adesioni fra i multimiliardari sono aperte, scommettiamo che mancherà quella di Trump?
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