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Ormai Kiev è una pedina di scambio

Una donna anziana con un militare, circondati da edifici distrutti a Pokrovsk
Una donna anziana con un militare, circondati da edifici distrutti a Pokrovsk

La paura che Trump svenda il Paese alla Russia segna il terzo anniversario del conflitto. Mentre l’Ue cerca un ruolo da negoziatore, gli Usa la tagliano fuori. Perché Mosca non è più il nemico

In Ucraina, ora, la paura è che Donald Trump riesca a portare a termine ciò che i russi non hanno ottenuto sul campo di battaglia. L’elemento nuovo, che accomuna i militari al fronte e i civili nelle retrovie, è un senso di ineluttabilità. «Finché il nemico è qui di fronte a noi», dice Sergey, sottotenente di una brigata di fanteria meccanizzata di stanza nei pressi di Pokrovsk, «sappiamo cosa fare, possiamo agire. Ma se gli Stati Uniti ci vendono alla Russia…».

 

Non era così che gli uomini di Sergey immaginavano il terzo anniversario di un conflitto che miete vittime senza sosta dal 24 febbraio 2022. In realtà, c’era ben poco da sperare. Nella loro zona i russi avanzano da mesi ormai. Sulle mappe militari, tutta la parte meridionale del Donetsk è segnata da cerchi e frecce rosse che indicano le direttrici di avanzata nemiche e le battaglie in corso. E nello spazio di poche decine di chilometri sono aperte diverse offensive, nessuna abbastanza massiccia da mettere a rischio la tenuta del fronte, ma tutte insidiose per i difensori.

 

«Guardatevi intorno», fa segno Sergey, «l’età media di questi uomini è quasi 50 anni, tranne Sasha che però è arrivato qui da poco; dormono in questa catapecchia da mesi e sopportano una pressione devastante». Raccontano che ormai i turni in prima linea, i quali, di media, dovrebbero durare quattro giorni, sono saltati a causa della presenza costante dei droni. Gli spostamenti sono limitati all’essenziale, anche nelle strade della parte controllata ancora da Kiev. Perciò si deve approfittare delle notti di nebbia, delle nevicate o del vento forte che impediscono ai droni di volare o limitano fortemente la visibilità. I veri padroni del fronte ormai sono questi velivoli senza pilota che hanno cambiato anche il modo di vivere a ridosso delle linee di combattimento e condizionano ogni gesto. Persino uscire dalle case sicure per pisciare. «Non è un ordine», spiega il giovane Sasha con una specie di ghigno, «se vuoi puoi andare fuori, ma a tuo rischio e pericolo; noi la facciamo nelle bottiglie». 

 

Gli ucraini, la settimana scorsa, hanno tentato una sortita per ricacciare il nemico indietro di qualche chilometro. Per un po’ la manovra ha funzionato, ma la schiacciante superiorità numerica degli uomini di Mosca ha vanificato l’operazione. Il punto è che all’esercito di Kiev mancano gli uomini: la recente campagna di arruolamento forzato non ha fatto altro che aumentare la paura della popolazione e il malcontento verso il governo. I video degli uomini in borghese che fermano improvvisamente i passanti e cercano di caricarli a forza su dei pulmini anonimi hanno fatto in fretta il giro dei canali Telegram e ora sulle chat cittadine ci si scambiano informazioni per evitare quella che in Ucraina viene definita «busificazione».

 

Tuttavia, le difficoltà dei centri di reclutamento e dei reparti in prima linea non sono nuove. L’impressione che hanno i soldati, simile a quella dei civili più accorti, è che siamo alla fine. Per la prima volta in tre anni, al fronte c’è fame di notizie: tutti hanno capito che il gioco si è allargato, che l’accelerazione imposta da Trump potrebbe effettivamente portare a un risultato nel breve termine. E che quel risultato non sarà favorevole a Kiev. Tutti i punti sui quali insiste Volodymyr Zelensky da mesi sembrano spariti dall’agenda di Washington: nessuna garanzia di sicurezza palese, comunque non all’interno della Nato, nessun nuovo sistema d’arma in grado di «colpire Mosca in pochi minuti», come vorrebbe Andriy Yermak, il consigliere plenipotenziario del presidente ucraino, niente scambi vantaggiosi tra il Kursk (la regione russa parzialmente occupata dallo scorso luglio) e altre aree attualmente controllate dai russi. Solo un generico «accordo per una pace duratura» e per lo scambio dei diritti di sfruttamento dei minerali e delle terre rare ucraine a fronte di altro sostegno militare. 

 

Trump usa come specchio per le allodole i «milioni di morti» (cifra presa non si sa da dove) e continua a paragonare la Russia di Vladimir Putin a quella che ha aiutato gli Stati Uniti durante la Seconda Guerra mondiale. Al neoeletto presidente Usa non interessa uno scontro diretto con Mosca, il nemico è più a Est ora: è la Cina. La guerra commerciale che Trump ha scatenato contro l’Europa e gli altri alleati storici nordamericani è solo il primo passo di uno scontro globale che vuole portare al parossismo. L’arma sono i dazi e lo spauracchio è quello di una crisi per il mercato globale. Così Trump alza la posta al massimo affinché gli avversari, spaventati, cedano alle sue condizioni. L’ha fatto con il Messico, lo sta facendo con l’Unione europea, ma non potrà farlo con Pechino, che è troppo forte e troppo legata all’economia Usa.

 

Molti analisti temono che Washington potrebbe insistere su un cessate il fuoco rapido in Ucraina per concentrarsi su una nuova spartizione del mondo in aree di influenza, nella quale terrebbe per sé il ruolo di arbitro, ma gli avversari sarebbero lasciati più liberi di agire. L’ha ribadito anche il falco J.D. Vance, il vicepresidente che alla Conferenza per la sicurezza internazionale di Monaco ha accusato l’Europa di avere un problema interno con la liberà d’espressione, prima di appoggiare indirettamente il partito neonazista tedesco Afd: gli altri dossier sono prioritari, l’Ue se la cavi da sola. In un contesto del genere, il Vecchio Continente vede svanire il ruolo di alleato privilegiato della Casa bianca e, anzi, viene trattato come un fardello. «L’Europa deve spendere di più», «non possiamo farci carico della vostra difesa», «avete approfittato della nostra generosità»: sono solo alcune delle bordate che gli uomini di Trump hanno lanciato contro le cancellerie europee, prima di concludere che «l’Europa non si siederà al tavolo» negoziale con Russia e Ucraina. Uno smacco epocale per i leader dell’Ue, che a Monaco sono stati ripresi costantemente con espressioni basite al limite dello sconcerto. Si aspettavano che si parlasse di aumento delle spese per la Nato e di dazi, invece Vance, l’inviato speciale di Trump per l’Ucraina, Keith Kellogg e il nuovo capo del Pentagono, Pete Hegseth, non hanno fatto altro che trattarci da parassiti, lagnoni e, per giunta, liberticidi.

 

Persino per la sonnecchiante Europa è stato troppo. Perciò Emmanuel Macron ha convocato a Parigi il vertice con Italia, Germania, Spagna, Polonia, Olanda, Danimarca e Gran Bretagna: per elaborare una strategia comune, per non essere estromessi dalle trattative sul cessate il fuoco in Ucraina. Il presidente francese insiste da anni sulla creazione di un meccanismo di difesa comune e sulla «morte cerebrale» della Nato. Eppure, dentro al gruppo continuano a convivere anime diverse: dal premier britannico Keir Starmer, pronto «a inviare soldati in Ucraina», a Giorgia Meloni, che ha addirittura espresso un certo apprezzamento per gli insulti di Vance, fino a Olaf Scholz, che tra poco potrebbe non essere più in carica e che, pur ribadendo il sostegno a Kiev, frena sulle truppe da mandare sul campo. Ma il tempo stringe. Con le delegazioni di Usa e Russia a Riad, in Arabia Saudita. Il tycoon ha specificato che non si tratta di veri e propri negoziati, ma di «colloqui preliminari». Il Cremlino, dal canto suo, ha affidato il delicato compito di stabilire il primo contatto al ministro degli Esteri, Sergej Lavrov. E l’Ucraina? Se pare folle che l’Ue sia tenuta fuori dalle trattative con Mosca, ancora più incredibile è che uno dei due belligeranti non sia considerato. Zelensky ha scelto, quindi, di sbarcare in Medio Oriente (con tappa pure a Riad) in contemporanea con tali incontri e ha ribadito che non ne accetterà l’esito, se Kiev non parteciperà. Per Trump, però, quest’ultima non è più «il baluardo della democrazia» che Joe Biden aveva imposto al mondo, bensì una pedina di scambio. Che, come tale, viene tenuta sullo sfondo.

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