Alla sede di Fire non sono mai stati così impegnati. «Gli studenti internazionali ci chiamano e ci scrivono perché sono preoccupati. Non hanno solo dubbi sull’opportunità di partecipare o no alle proteste, ma anche sulla necessità di ripulire i social, di cancellare post di critica». È così che Sarah McLaughlin, ricercatrice dell’organizzazione, descrive a L’Espresso il clima teso che si respira nella nuova America di Donald Trump tra gli stranieri, anche quelli in possesso di documenti in regola. «Sentono che ormai è rischioso non solo urlare le proprie opinioni, ma anche scriverle sulle loro pagine. Si chiedono se sia il caso di autocensurarsi mentre si trovano qui negli Stati Uniti». La missione della Foundation for Individual Rights and Expression è quella di difendere la libertà di espressione e fornire strumenti utili per preservarla. «A ogni studente ricordiamo i propri diritti, ma oggi tutti si preoccupano delle conseguenze del loro esercizio».
Anche Jameel Jaffer, nel suo ufficio alla Columbia University, da settimane ha a che fare con allievi e professori «terrorizzati perché ci sono agenti che fanno irruzione nel campus». L’ente che dirige, il Knight First Amendment Institute, mai avrebbe immaginato di affrontare uno scenario come questo. «Ti aspetteresti qualcosa del genere in Egitto, in Cina o in Iran, non qui. È pazzesco anche solo doverne parlare».
Sul prestigioso ateneo dell’Upper West Side di New York – roccaforte della sinistra – è calata una cappa di spavento e tachicardie dallo scorso otto marzo, quando una pattuglia dell’Ice, la polizia responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell'immigrazione, ha fermato sulla soglia di casa Mahmoud Khalil, palestinese nato in Siria ma con regolare permesso di soggiorno, fresco di specializzazione alla School of International and Public Affairs. Non un criminale ma uno dei leader delle proteste scoppiate l’anno scorso contro la guerra a Gaza, a capo dei negoziati tra i manifestanti e la dirigenza dell'università a cui i ragazzi chiedevano di “disinvestire” da Israele. Azioni pacifiche, coordinate nella tendopoli allestita sui prati. Khalil, lo avevamo incontrato anche noi in quelle lunghe giornate, aveva scelto di mostrarsi a volto scoperto parlando con tv e giornali. Un errore di ingenuità, gli rimprovera la moglie americana Noor, all’ottavo mese di gravidanza, che ha assistito all’arresto del compagno, detenuto in Louisiana. Senza che ancora sia stata formalizzata alcuna accusa, se non quella del tribunale social che lo segnala come “cittadino straniero sospetto”. Vittima di doxxing, temendo ritorsioni, Khalil aveva inutilmente chiesto protezione ai vertici della Columbia.
Su X un utente aveva pubblicato la sua foto, taggando il Segretario di Stato Marco Rubio, autore di un tweet in cui minacciava di espellere i sostenitori di Hamas. L’arresto era arrivato due giorni dopo. Il ministro, infatti, ha facoltà di procedere in presenza di azioni non meglio specificate che potrebbero avere conseguenze potenzialmente gravi sulla politica estera. Tutto e nulla, insomma. Con simili vaghe accuse, è stata privata della libertà anche Leqaa Kordia, un’attivista palestinese che aveva preso parte alle manifestazioni (ma il cui visto era comunque scaduto, secondo quanto riferito dal dipartimento della Sicurezza Interna). Una dottoranda, Ranjani Srinivasan, indiana, ha scelto invece di lasciare volontariamente il Paese. Sui social della Casa Bianca, Donald Trump aveva avvertito che il blitz contro Khalil, definito «uno studente straniero radicale pro-Hamas», sarebbe stato il primo di una lunga serie. Concetto rimarcato dal vice JD Vance in un’intervista a Fox, che ha spiegato come chiunque si trovi negli Usa con un visto studentesco potrà essere cacciato per proteggere un (vago) interesse del Paese. Un piano in linea con l’obiettivo di aumentare il numero di rimpatri. «Questa repressione spietata contro i manifestanti fa parte di un attacco molto più ampio non solo alla libertà di parola, ma anche alle istituzioni democratiche», ci dice Jameel Jaffer. «E ciò include i media, le università, le organizzazioni della società civile come i gruppi per i diritti umani e le libertà civili».

In questo clima, a far tremare è la tracotanza di un presidente che, un esempio fra tantissimi, ha avuto il coraggio di tagliare i finanziamenti ad un baluardo del soft power Usa come la testata pubblica Voice of America, accusata di diffondere idee radicali. Ma che ha anche minacciato di congelare i sussidi federali alle università che non riescono a prevenire le «proteste illegali», soprattutto quelle considerate antisemite. La Columbia, capostipite delle istituzioni progressiste d’élite così invise alla destra, si è vista decurtare 400 milioni di dollari. Fondi che potrà ripristinare se ottempererà alle richieste specifiche del governo per garantire “sicurezza”. Almeno 60 istituzioni, tra cui capisaldi della Ivy League come Harvard e Cornell, affrontano rischi simili. Stessa sorte per la Brown University, dove in questi giorni una dottoressa e insegnante di medicina di origine libanese è stata rimpatriata nonostante fosse in possesso di un visto valido e un ordine del tribunale che ne bloccasse l’espulsione. I motivi, ancora oscuri. Per prevenire altri casi analoghi, l’ateneo ha consigliato a tutta la comunità accademica internazionale di «rinviare viaggi personali fuori dagli Usa». È la morte per asfissia del primo emendamento della Costituzione, un tempo considerato sacro, che garantisce la libertà di parola, di stampa, di culto e di protesta.
Forse l’immagine più plastica della costruzione di questa nuova America è quella che ritrae gli operai del comune di Washington intenti a rimuovere l’enorme murale Black Lives Matter dipinto in giallo sul pavimento della Sedicesima strada, di fronte alla Casa Bianca. Se la sindaca Muriel Bowser non avesse dato l’ordine di cancellare il simbolo della stagione di proteste contro la violenza della polizia sugli afroamericani, il commander-in-chief l’avrebbe soffocata, privandola dei sussidi alla città.
Tra gli analisti, c’è chi riesuma i fantasmi del maccartismo degli anni ‘50. «Ci sono tanti parallelismi: l’intolleranza al dissenso, la caccia alle streghe, la paura e la codardia delle istituzioni. Ma una grande differenza: il potere del senatore repubblicano Joseph McCarthy era limitato. Quello di Trump, oggi, non lo è». Certo, non tutto è immobile. Ci sono state rimostranze anche contro la detenzione di Khalil. «Molte organizzazioni stanno contestando queste politiche. Intentiamo cause in tribunale e le sentenze emesse finora sono state incoraggianti». L’unico modo per fermare questa amministrazione, conclude Jaffer, è scendere in massa in strada. «Finora non è successo a causa di questo clima di terrore: chiunque potrebbe protestare teme di essere ripreso dalle telecamere, diventando bersaglio della repressione. È un momento davvero terribile».