I candidati di destra che imitavano il programma di Donald sono stati sconfitti in Canada e Australia. E ora anche in Europa i leader populisti iniziano a prendere le distanze

Consiglio non richiesto a Viktor Orbán: guardi il Canada. E poi l’Australia. E magari prenda appunti in vista delle prossime elezioni in Ungheria nel 2026. Traslare l’agenda Maga in patria sembra portare più grane che voti. Quando lo scorso 28 aprile la destra canadese ha consegnato la vittoria ai liberali di Mark Carney, è apparso evidente che stava pagando cara la somiglianza tra il proprio leader Pierre Poilievre e Donald Trump, nello stile e nella retorica. Molti però, all’inizio, hanno visto in quel risultato un’eccezione, un caso-limite: oltre alla guerra commerciale e ai dazi, pesava anche la minaccia di annessione lanciata dal tycoon, deciso a trasformare i cugini del Nord nel cinquantunesimo Stato americano. Poi sono arrivate le elezioni australiane. Anche lì la destra, che aveva fotocopiato il programma del repubblicano e sembrava favorita fino a poche settimane prima, è stata punita dagli elettori.

 

 

A guardare il malcontento generale, sembra che la “Trump wave” si stia trasformando in una risacca per quei leader che pensavano di importare il vangelo trumpiano. Quello che, nel primo mandato, era sembrato un modello globale anti-woke e anti-establishment, ora logora chi lo ha adottato e lo stesso presidente americano, il cui indice di gradimento è crollato. E gli effetti si vedono anche in Europa. La guerra dei dazi contro il Vecchio Continente ha generato profondo risentimento per il potenziale impatto sulle economie locali. Ma il rigetto riguarda anche l’arroganza di Trump verso gli alleati, le ambizioni espansionistiche e l’impronta sempre più autoritaria. Non sorprende che Orbán, tra i suoi alleati più fedeli, affronti oggi una forte opposizione. Non a caso Giorgia Meloni ha scelto la strada della cautela.

 

 

«L’estrema destra si presenta come patriottica. I loro avversari usano proprio questa posizione contro di loro, sostenendo che la fedeltà a un presidente statunitense anti-europeo li rende servi di una potenza straniera», spiega Reuters, riprendendo le analisi di Javier Carbonell dello European Policy Centre. Chi era salito sul carro del vincitore, oggi cerca di scendere in fretta, per non fare la stessa fine di Poilievre in Canada o Peter Dutton in Australia. Qui, fino a poche settimane fa, il destino del Primo Ministro laburista Anthony Albanese sembrava segnato. E invece lo scorso 3 maggio, il sessantaduenne di origini pugliesi è stato riconfermato con la coalizione progressista e dovrà gestire gli equilibri strategici con Pechino e Washington. Determinanti per la vittoria sono stati proprio il risentimento antiamericano e la rabbia per i dazi.

 

 

Un déjà vu di quanto successo in Canada. La rinascita di Albanese ha tratti simili a quella di Mark Carney. Anche in Australia l’opinione pubblica aveva espresso stanchezza verso il governo di sinistra a causa di carovita, crisi abitativa, immigrazione e controllo dei confini. Poi è arrivato Trump a cambiare le priorità. Ironia della sorte, come Poilievre, anche Peter Dutton ha perso il seggio in parlamento. Negli sfottò dei detrattori, è “Temu Trump”, il Donald in fac-simile e a buon mercato. Ex poliziotto, Dutton ha costruito il suo personaggio sull’immagine di uomo duro e inflessibile, rafforzata durante il suo incarico ai vertici di Difesa, Interni e Immigrazione. In campagna elettorale ha sostenuto le battaglie anti-woke, puntato a frenare l’immigrazione, attaccato i media e promesso una versione australiana del Doge muskiano. «Non abbiamo bisogno di mendicare, prendere in prestito o copiare da nessun altro – ha rintuzzato Albanese festeggiando a Sidney il successo – Non cerchiamo la nostra ispirazione all'estero. La troviamo proprio qui, nei nostri valori e nella nostra gente».

 

 

Un discorso dai toni simili a quello pronunciato da Mark Carney a Ottawa. Solo alla fine dell’anno scorso i liberali sembravano spacciati, con i conservatori avanti di oltre 20 punti, tanto da spingere Trudeau a dimettersi a gennaio. I tempi della rimonta parlano chiaro: l’orgoglio nazionale, montato dopo la guerra dei dazi e le minacce di annessione, ha spinto gli elettori a mettere al centro l’identità nazionale. Carney era l’anti-Trump e per questo ha vinto. In extremis, Poilievre ha provato a rinnegare lo slogan “Canada First” e a smorzare una retorica troppo simile a quella Maga. Ma il pentimento è arrivato tardi. «L'America vuole la nostra terra, le nostre risorse, la nostra acqua, il nostro Paese. Non sono minacce vane. Il presidente Trump sta cercando di distruggerci per impossessarsi di noi. Questo non accadrà mai», ha detto il primo ministro nel discorso della vittoria.

 

 

Sebbene conscio dell’urgenza economica e del rischio recessione causato dai dazi statunitensi, l’ex banchiere ha mantenuto un tono fermo verso gli Usa. «La nostra vecchia relazione con gli Stati Uniti è finita», ha promesso, assicurando però l’intenzione di curare le relazioni bilaterali ma anche di ridurre la dipendenza economica, rafforzando i legami con l’Europa e investendo in infrastrutture per facilitare la costruzione di oleodotti e diversificare le esportazioni di petrolio (gli Usa sono oggi il principale acquirente). Il G7 di giugno, presieduto proprio dal Canada, sarà il banco di prova cruciale per capire se Carney potrà essere un riferimento per gli altri Paesi e proporsi come leader di una “terza via” atlantica.

 

 

Ma i risultati di Ottawa e Canberra non segnano certo la fine del populismo come lo conosciamo. Anzi. «Stiamo assistendo alla sua consolidazione: è diventato norma», spiega Benjamin Moffitt, ricercatore della Monash University, autore di The Global Rise of Populism. «Da un lato, i leader populisti hanno ottenuto successi significativi; dall’altro, i partiti non populisti hanno adottato molte delle loro piattaforme, i linguaggi e gli stili nel tentativo di contrastarli». Anche secondo Anna Grzymala-Busse, politologa della Stanford University e membro del progetto The Global Populisms: «Più che una stanchezza verso il populismo di destra in sé, si osserva una sorta di reazione allergica verso leader come Trump». Lo vediamo, in parte, anche in Europa.

 

 

In Francia Marine Le Pen – che ha ricevuto solidarietà da Washington dopo la condanna per appropriazione indebita e la conseguente interdizione per cinque anni dalle cariche pubbliche – ha provato a distanziarsi da Washington per normalizzare il Rassemblement National e per renderlo appetibile a un elettorato più moderato; Nigel Farage ha preso le distanze dalla linea trumpiana sull’Ucraina, nel tentativo di apparire più credibile a livello internazionale; in Ungheria, Orbán vede erodere il consenso dopo anni di dominio: il partito d’opposizione Tisza è in vantaggio. Le tariffe rischiano di minare l’economia, uno dei suoi principali asset elettorali; in Spagna, Santiago Abascal si muove con cautela: ha evitato critiche dirette, offrendosi come mediatore sul fronte dazi a difesa degli agricoltori spagnoli. Berlino e Roma rimangono eccezioni. Qui, ricorda Grzymala-Busse, «il sostegno ai populisti resta forte: Afd cresce in Germania e FdI è il primo partito in Italia». Ma anche a Bucarest, dove in testa – almeno al primo turno delle presidenziali – c'è il leader della destra sovranista George Simion con l'Aur.

 

 

In questo panorama, Giorgia Meloni si muove con passo accorto: si è presentata a Washington come “amica” del presidente, ma è riuscita a ritagliarsi il ruolo di cerniera tra Europa e Casa Bianca. Per ora, è lei la più abile a navigare le acque agitate del trumpismo globale. «Potrebbe rappresentare un possibile modello per i populisti di destra intenzionati a garantire la propria sopravvivenza politica mantenendo una linea più equilibrata», nota la radio pubblica americana Npr, che ne sottolinea l’abilità di mediatrice tra gli Usa e gli altri leader europei. Ne sono un esempio le sue posizioni sull’Ucraina, ma anche la critica ai dazi. Insomma, una “Trump whisperer”, ma con relativa autonomia.

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