Il bullismo di Trump spinge sempre più Paesi a rivedere le proprie strategie commerciali. L’obiettivo finale è aggirare gli Stati Uniti. Che da soli valgono oltre un quinto degli scambi

Prove globali per fare affari senza gli Usa

Il primo a varcare la soglia della Casa Bianca pieno di speranze era stato il 17 aprile Ryosei Akazawa, ministro del Commercio estero giapponese. Doveva essere l’inizio nei negoziati ufficiali per porre fine alla guerra dei dazi. Il Giappone non è un partner qualsiasi: è il più grande possessore di buoni del Tesoro Usa con oltre mille miliardi di dollari (seguito dalla Cina con 768 miliardi e dalla Gran Bretagna con 765), ed è anche uno dei più solidi alleati degli Stati Uniti. Bene, malgrado Akazawa sia stato ricevuto personalmente da Donald Trump, è tornato a casa senza uno straccio di accordo, solo con l’immancabile carico di fandonie (una su tutte: «Noi paghiamo milioni per la vostra difesa, voi nulla», quando il Giappone ha in bilancio 1,4 miliardi di dollari ogni anno per il supporto alla presenza militare Usa). Dopo la delusione giapponese, le visite economiche – a parte quelle diplomatiche “senza delega” di Emmanuel Macron, Keir Starmer, Giorgia Meloni – si sono intensificate: dal rappresentante dell’Ue, il commissario slovacco Maroš Šefčovič (che si è sentito chiedere 350 miliardi di acquisti di gas, pari all’intero budget energetico europeo), a To Lam, segretario generale del partito comunista del Vietnam, altro Paese reduce da una guerra con l’America finita nel 1975 (oltre tre milioni di morti vietnamiti e 58mila americani) ma oggi proiettato verso un prorompente sviluppo (nel 2024, +7,5 per cento di Pil). Niente da fare, risultati pari a zero. Così se n’è andato il primo dei tre mesi “concessi” da Trump per trovare una soluzione definitiva. I dazi nel frattempo sono stati riportati al 10 per cento (tranne che con la Cina dove restano al 145 per cento per il 77 per cento delle merci esportate) ma torneranno a livelli stellari dall’8 luglio: l’Europa rischia il 20 per cento, il Giappone il 24, il Vietnam addirittura il 46.

 

A questo punto, circola nel Pianeta l’esasperazione per il bullismo del presidente americano, e la tentazione di fare a meno degli Usa, malgrado rappresentino il 23 per cento del commercio mondiale. Non è una novità, solo che adesso diventa una vera linea-guida. Se guardiamo ai dati, come ha fatto Ruchir Sharma, presidente della Rockefeller International, si scopre che il mondo già sta sperimentando il commercio senza gli Stati Uniti: negli ultimi otto anni, dal debutto del Trump I, i quattro quinti dei Paesi (in particolare Italia, Giappone e Vietnam ma anche Svezia, Turchia e Grecia) hanno registrato aumenti superiori al 10 per cento nel contributo dell’import-export al Pil nazionale (oggi la quota è del 38 per cento in Italia). Non così gli Usa, dove è sceso fino al 25 per cento del Pil. È vero che l’America è cresciuta di più, ma senza alcun contributo dal commercio estero. Ha ancora il 15 per cento degli scambi, ma il declino degli ultimi anni è stato pesantissimo.

 

Visto che escludere gli Usa dai circuiti commerciali non è un’utopia, i più rapidi nel cavalcare il nuovo corso sono stati i soliti cinesi. Xi Jinping è andato nelle ultime settimane già due volte ad Hanoi, e poi in Cambogia, Filippine, Thailandia. Ha anche cercato con inconsueto spirito amichevole di inserirsi nella complessa rete di alleanze imperniata sul Giappone che riguarda tutta l’area del Sud-est asiatico.

 

Ma anche l’Europa non è rimasta a guardare. Si tratta di rilanciare una strategia “Global gateway”: iniziata nel 2021 con l’ambizioso scopo di mobilitare fino a 300 miliardi di investimenti in Paesi terzi (extra Ue ma anche extra Usa) con i quali ci sono realistiche prospettive di interscambio, sembrava una delle non poche velleitarie iniziative dell’Ue destinate a finire su un binario morto. Invece, ora che Ursula von der Leyen ha deciso di rivitalizzarla, si è scoperto che i lavori erano proseguiti in silenzio: adesso si intende farne la pietra angolare del rinnovato slancio di Bruxelles sui mercati esteri. Intanto 264 progetti sono partiti, sempre con la formula garanzie comunitarie-risorse private: infrastrutture in Cile, energie rinnovabili in Sudafrica, costruzione del ponte Logone fra Yagoua in Camerun e Bongor nel Ciad, connettività satellitare con il Costa Rica, e così via. Ma ben altri se ne aggiungeranno presto, è l’intenzione. A coordinare il tutto è il “Servizio europeo per l’azione esterna” di Palazzo Berlaymont, insediato presso l’alto rappresentante per la politica estera, oggi l’ex premier estone Kaja Kallas.

 

L’attivismo della Commissione nell’aprire nuove rotte per le imprese europee è febbrile. La stessa von der Leyen in pochi mesi è stata a New Delhi per rinsaldare i rapporti con il premier Narendra Modi (ora che l’India ha abbandonato il suo atteggiamento storico sovranista per aprirsi al multilateralismo globale), ha partecipato al summit per lo sviluppo dell’Asia centrale  a Samarcanda in Uzbekistan, è andata negli Emirati arabi uniti a stringere la mano allo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan che le ha promesso la collaborazione dei Paesi del consiglio per la cooperazione del Golfo (che attualmente presiede), e via dicendo. «Dietro ognuno di questi incontri c’è un cambiamento culturale importante, indotto dal nuovo clima globale che si respira», conferma l’economista Marcello Messori, docente all’Istituto Universitario Europeo di Firenze. L’apertura all’Europa dei Paesi del Golfo contiene elementi di novità significativi, se si pensa che finora l’unico partner plausibile per questi Stati era l’America. Altri tempi. «L’Europa, unica frontiera rimasta di pace e democrazia, ha una chance straordinaria per espandere il suo mercato e valorizzare finalmente il suo potenziale, oltre che per rilanciare l’euro», aggiunge Messori. «Un salto di qualità epocale: l’importante è non cadere nella trappola di Trump quando dice di voler concludere accordi separati con i singoli Paesi. Allora di colpo si tornerebbe a una dimensione svantaggiata». 

 

Non c’è solo l’aspetto commerciale nel nuovo ordine “extra Trump” che si sta cercando di disegnare. «La partita finanziaria è altrettanto cruciale perché anche lì il dominio dell’America è soverchiante», ricorda Angelo Baglioni, economista della Cattolica e direttore di Osservatorio Monetario. «Ogni volta che effettuiamo una transazione elettronica, sia con un Apple account che con una carta Visa o Mastercard o qualsiasi altro circuito di pagamento, questa viene contabilizzata negli Stati Uniti». Sia l’Europa che la Cina sono intenzionate a cogliere quest’occasione (il “great reshaffle”, grande rimescolamento, come lo chiama il Nobel Paul Krugman) per liberarsi da questo giogo. «Una via può essere quella della tecnologia», spiega Baglioni. «Le ricerche sull’euro digitale da parte della Bce (le cominciò Fabio Panetta, attuale governatore della Banca d’Italia, quando era nel board dell’Eurotower, ndr) sono arrivate a uno stato avanzato, e la Banca di Cina ha cominciato a introdurre lo yuan digitale per una sperimentazione su larga scala. A questo punto, potremo fare le nostre operazioni in valuta digitale, senza spese perché se le assume la Bce e senza più dover passare per i circuiti americani». L’insidia si chiama però cryptocurrency e viene ancora una volta da Washington: «In uno dei suoi tanti ordini esecutivi, Trump ha dato il via libera allo stablecoin – aggiunge Baglioni – una valuta digitale agganciata al dollaro, pensata per consolidare il mercato della moneta Usa». L’ennesima competizione sfrenata, con il finale ancora non scritto, nella “guerra mondiale commerciale a pezzi”, come avrebbe detto papa Francesco.

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