Mentre a Gaza procede il massacro della popolazione palestinese – dopo l’approvazione del nuovo piano del governo di Netanyahu che prevede l’occupazione dei territori della Striscia e il trasferimento di più di due milioni di civili tra il corridoio di Morag e il confine con l’Egitto – in Cisgiordania continuano le violenze, gli attacchi dei coloni e la sistematica pulizia etnica. Anche se i territori hanno caratteristiche diverse, la cifra comune, sempre più evidente, è proprio quella dell’occupazione.
Si tratta di una strategia sempre più esplicita, ben riassunta nel commento del ministro delle finanze Bezalel Smotrich all’approvazione del piano: «Finalmente occuperemo la Striscia di Gaza – ha dichiarato il ministro – Smetteremo di avere paura della parola “occupazione”».
Una paura che in Cisgiordania le forze israeliane non hanno da anni. Nella regione di Masafer Yatta, dove è stato girato il documentario “No Other Land” e dove vive uno dei co-registi, Basel Adra, proprio questa settimana è stato completamente cancellato un villaggio in cui vivevano più di 150 persone. Il villaggio di Khallet ad-Daba’a, spiega Mohammed Hurraini, attivista del movimento locale di resistenza nonviolenta Youth Of Sumud, si trova in un punto strategico, «che collega il villaggio di Um Fagarah con gli altri villaggi della zona». Per questa ragione, subisce continui attacchi ed «è circondato da colonie e da un numero crescente di avamposti illegali. Stanno cercando di soffocare questi villaggi e di rendere la vita qui insopportabile, di spingere la gente ad andarsene». Attaccare questo villaggio, in particolare, significa isolare centinaia di persone, distruggere ogni possibile rete e connessione tra le comunità.
Gli attacchi a Khallet ad-Daba’a si sono intensificati a partire dalla scorsa estate, quando circa 70 coloni a volto coperto avevano cercato di darlo alle fiamme. Il progetto di cancellazione si è compiuto il 5 maggio con le ultime demolizioni, che hanno lasciato intatte soltanto due abitazioni. «Le persone non sanno più dove andare» racconta Hurraini. La posta in gioco è la sopravvivenza dei palestinesi nella zona.
Le ultime demolizioni sono avvenute come da prassi: la mattina l’esercito si è presentato a Khallet ad-Daba’a con mezzi pesanti, ruspe ed escavatori. I militari hanno delimitato l’area e hanno ordinato alle famiglie di svuotare le abitazioni, di abbandonare le proprie case e le proprie cose. «Sono arrivati e hanno distrutto le case, come sempre» spiega Hurraini, che nella regione è nato e cresciuto e per cui le demolizioni sono tutt’altro che una novità: «È stata come una scena della Nakba» aggiunge, riferendosi al primo grande esodo del 1948, quando circa 700mila palestinesi hanno dovuto abbandonare le proprie terre. E continua: «Hanno distrutto tutto, perfino le caverne in cui la gente viveva, i pozzi e ogni cosa su cui le persone potevano fare affidamento per sopravvivere».
La demolizione del cinque maggio è arrivata dopo altre due grandi operazioni, avvenute nello stesso villaggio il 10 e il 26 febbraio, durante le quali sono state distrutte rispettivamente 7 e 8 abitazioni. Questa volta non resta quasi più nulla, un’intera comunità è stata sradicata. È così che si compie il progetto di occupazione invocato da Smotrich e dal governo Netanyahu: un villaggio alla volta, una comunità alla volta.
In questo processo, coloni ed esercito sono coinvolti in egual misura, agiscono in maniera coordinata: come spiega Hurraini «non c’è nessuna differenza, sono parte di un unico regime, quello del loro governo, guidato dall’obiettivo di ottenere una terra completamente svuotata dalle persone, si coordinano continuamente per opprimerci in ogni modo possibile».
«La difficoltà di assistere alle demolizioni» racconta Stasia, attivista di Mediterranea Saving Humans, presente durante una delle ultime operazioni, «nasce anche dal fatto che rappresentano, in modo chiaro ed eloquente, il disegno sistematico di furto, privazione, violenza e violazione avallato dal governo e dalle sue strutture di controllo, polizia e forze armate. Non si tratta di atti isolati di estremisti fanatici: la presenza di bulldozer, decine di veicoli e agenti mobilitati per portare a termine queste operazioni parla da sola, rendendo evidente il progetto politico che le sostiene».
La popolazione di Khallet ad-Daba’a però non ha intenzione di abbandonare la propria terra, nemmeno ora che non ha più un posto dove vivere e quasi nulla con cui riuscire a sostentarsi. Così, vengono sostenuti da tutta la comunità, da tutti i villaggi della regione: «Ognuno è presente e cerca di aiutare con qualcosa. Ora l’idea è quella di iniziare a ricostruire le case che sono state abbattute e rendere le caverne di nuovo abitabili». Demolizione dopo demolizione e attacco dopo attacco la comunità si unisce e reagisce, ricominciando a ricostruire il prima possibile.
Le demolizioni in tutta la Cisgiordania proseguono a un ritmo senza precedenti. Secondo i più recenti dati Ocha (l’ufficio delle Nazioni Unite per la coordinazione degli Affari Umanitari), nel resto della regione solo dall’inizio del 2025 sono stati abbattuti 717 edifici, lasciando sfollate quasi mille persone. Un villaggio alla volta, un terreno alla volta, la Cisgiordania sta scomparendo. Mentre il governo Netanyahu si riappropria della parola occupazione, un intero popolo rischia di perdere il diritto di esistere sulla propria terra.