L’Italia importa grandi quantità di manganese dal Paese caucasico per la lavorazione dell’acciaio. Ma la sua estrazione ha un impatto devastante sugli abitanti e sull’ambiente della regione

La Georgia delle miniere di sangue

Giorgi Neparidze ha ancora le cicatrici sulle labbra. L’anno scorso, durante uno sciopero della fame, si è cucito gli angoli della bocca in segno di protesta. Vive a Chiatura, una città mineraria della Georgia occidentale, due ore di macchina dalla capitale Tbilisi. È un ex minatore oggi attivista per l’ambiente e i diritti civili. Da mesi, insieme a molti suoi ex colleghi, Neparidze sta protestando contro la Georgian Manganese, una società che ha stretti legami con il governo. Denuncia che, estraendo manganese dalle viscere di questa zona, la compagnia ha causato devastazioni ambientali intorno alle loro case. Per questo chiede di essere risarcito.

 

L’Unione europea importa quantità significative di manganese dalla Georgia. E l’Italia è la regina degli acquirenti: con il 3,2 per cento del totale nel 2024, a livello globale è seconda solo a Turchia, Stati Uniti ed Egitto. Il manganese viene usato da sempre per creare leghe d’acciaio resistenti, utilizzate ad esempio nei sistemi frenanti delle auto, ma negli ultimi tempi la sua importanza strategica è aumentata. Oltre a essere essenziale nell'industria militare per oggetti come i giubbotti antiproiettile, cannoni e canne da fucile, serve moltissimo per la transizione energetica. Viene infatti utilizzato sia per realizzare i generatori eolici che per le batterie delle auto elettriche. Per questo già da due anni Bruxelles ha aggiunto il manganese alla propria lista di minerali essenziali. Nel 2024 l'Ue ha acquistato dalla Georgia 27 mila tonnellate di leghe di manganese, di cui circa la metà sono arrivate in Italia.

 

Per i cittadini della zona di Chiatura, però, la corsa europea a questo metallo è diventata una maledizione. «Veniamo sacrificati affinché altri possano avere una vita migliore», spiega Neparidze elencando una serie di fatti causati dall’estrazione del metallo. L’ex minatore cita i fiumi inquinati, le tante case crollate e gli alti tassi di cancro nel distretto. Racconta che in un villaggio della zona, Shukruti, oltre il dieci per cento della popolazione ha un tumore. I test condotti da L’Espresso e da Source Material sul fiume Kvirila, che attraversa Chiatura, e sul suo affluente, il Bogiristiskali, mostrano che i livelli di manganese in entrambi i corsi d’acqua superano di oltre dieci volte il limite consentito. Gli abitanti usano l’acqua inquinata per irrigare i campi oltre che per la pesca.

Chiatura era un fiorente centro minerario ai tempi dell’Urss e riforniva di manganese tutte le repubbliche sovietiche. Oggi ha 40mila abitanti circa ed è meta di qualche sparuto gruppo di turisti appassionati di archeologia industriale, come il sistema di funivie ormai quasi totalmente arrugginite. Per difendere le loro case, nell’ultimo anno i manifestanti hanno bloccato a intermittenza gli ingressi delle miniere e le strade principali, determinati a impedire al prezioso minerale di lasciare Chiatura. Gocha Kupatadze, minatore in pensione di 67 anni, dorme in una tenda a fianco a una miniera sotterranea. Controlla che il manganese non esca da lì. Le notti d’inverno sono gelide e ci sono i topi. «Mi salgono addosso e mi mordono», dice l’uomo scostando il pile per mostrarci una piaga rossa sulla spalla.

 

Per certi versi i sacrifici hanno dato risultati: sette mesi fa la Chiatura Management Company, azienda responsabile della gestione del personale per le operazioni sotterranee della Georgian Manganese, ha fermato la produzione. Ma per i manifestanti è stata più una punizione che un trionfo. La loro richiesta era infatti quella di un risarcimento per le case crollate e un miglioramento delle condizioni lavorative, non il blocco dello stipendio. La lotta di Chiatura ha gradualmente assunto la veste di battaglia nazionale. A Tbilisi i manifestanti adesso cantano cori di solidarietà verso i minatori della cittadina dell'Imereti. Anche perché Neparidze e i suoi compagni non stanno solo affrontando una semplice impresa mineraria. La società madre di Georgian Manganese, Georgian American Alloys, è registrata in Lussemburgo e ha come proprietari due aziende domiciliate in paradisi fiscali, Cipro e le Mauritius. Si chiamano G.M. Georgian Manganese Holdings Ltd e Alverna Limited. Non esistono documenti pubblici per sapere con certezza chi sono i proprietari delle due scatole offshore, ma secondo carte giudiziarie statunitensi fino a qualche anno fa dietro il gruppo del manganese c'era di sicuro l'oligarca ucraino Ihor Kolomoisky. Oggi è in carcere a Kiev con l'accusa di aver assoldato una gang per uccidere un avvocato che minacciava i suoi interessi commerciali, ed è anche stato sanzionato dagli Stati Uniti per aver sottratto miliardi di dollari alla PrivatBank, la più grande banca ucraina. L'altro uomo importante delle miniere di manganese di Chiatura, forse ancora più temibile per manifestanti, è l'imprenditore georgiano Giorgi Kapanadze, considerato dal Parlamento europeo uno degli esponenti più importanti dell'élite che aiuta il regime georgiano. Kapanadze oggi è ufficialmente uno degli amministratori della holding lussemburghese che controlla le miniere di Chiatura.

 

Sogno Georgiano, il partito che guida il Paese, fondato dall’oligarca Bidzina Ivanishvili, è entrato in conflitto con l’Ue per alcune scelte politiche e per il modo in cui ha represso le critiche nel Paese. Il 29 aprile, ad esempio, la polizia georgiana ha arrestato quattro attivisti, tra cui proprio Neparidze, con l’accusa di aver aggredito il direttore di una miniera. Rischiano sei anni di carcere. L’attivista di Chiatura la definisce una messinscena, parte di una più ampia campagna per mettere a tacere le voci critiche in tutto il Paese. Di sicuro, da quando ha sospeso i negoziati di adesione all’Ue, lo scorso ottobre, Sogno Georgiano ha limitato molto la libertà di critica nel Paese: ha chiuso diversi media indipendenti, arrestato e multato decine di manifestanti. Per Irakli Kavtaradze, capo del Dipartimento degli Esteri del maggiore partito di opposizione, il Movimento Nazionale Unito, la democrazia in Georgia sta «arretrando» e le tattiche usate dal governo «sembrano provenire da un manuale scritto al Cremlino».

 

L’Unione europea ha messo nel mirino il governo autoritario di Sogno Georgiano. Dopo che Tbilisi ha sospeso i negoziati per l’ingresso nel blocco e varato la legge contro le Ong (le donazioni provenienti dall’estero e dirette verso associazioni locali adesso vengono vagliate dalle autorità pubbliche ndr), Bruxelles ha sospeso la possibilità di viaggiare senza visto, riservata finora ai diplomatici georgiani, e sospeso programmi di aiuti finanziari per 120 milioni di euro. Dall’altro lato, alcune cose non sono cambiate per niente. I dati dicono che il commercio tra Ue e Georgia continua, compreso quello delle leghe di ferro al manganese, una delle voci principali dell’export per Tbilisi.

Il caso di Chiatura e della Georgian Manganese racconta che in questo settore capita di avere a che fare con società private molto vicine alle autorità pubbliche, e non è detto che i clienti finali, in Italia o in un altro Paese europeo, sappiano esattamente chi è il fornitore georgiano del manganese usato per rafforzare l’acciaio. L’Anev, l’associazione italiana dei produttori di energia elettrica da fonte eolica, ci ha spiegato che al momento «non esiste un obbligo specifico di tracciatura per tutti i metalli utilizzati nella produzione degli acciai». Insomma, chi compra acciaio al manganese, come qualsiasi altro tipo di acciaio, non è tenuto ad assicurarsi che per produrlo siano state rispettate le persone e l’ambiente.

 

Le cose stavano in realtà per cambiare, ma alla fine si è deciso di tirare il freno a mano. A inizio anno gli europarlamentari hanno infatti votato per ritardare l’entrata in vigore di una direttiva che avrebbe imposto a migliaia di aziende di effettuare controlli più rigorosi sulle proprie catene di fornitura, eliminando partner che violano i diritti umani o ambientali. Si chiama “Corporate Sustainability Due Diligence Directive”, in sigla Csddd, e dovrebbe porre un freno all’importazione di materiali ottenuti sfruttando i lavoratori e devastando la natura. Come detto, la direttiva doveva entrare in vigore nel 2025, ma alla fine la sua attuazione è stata posticipata al 2027. E i vincoli sono stati allargati: saranno obbligate a rispettare la norma solo le aziende con più di 5.000 dipendenti e 1,5 milioni di euro di fatturato globale, e non dovranno sottoporre a verifica i vari subappaltatori.

 

Inchiesta realizzata grazie al contributo di Journalismfund Europe

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