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15 luglio, 2025Articoli correlati
Siamo di fronte a un campo di tensione tra una pluralità di “Orienti” e “Occidenti”. È una follia pensare che i 27 possano competere con il riarmo. Il solo ruolo possibile è riscoprire la potenza e la capacità connettiva del proprio straordinario retroterra simbolico
Affrontare un problema cruciale, ma oggi in apparenza utopico, come quello degli Stati Uniti d’Europa è impossibile senza riferirsi al progetto dei grandi fondatori dell’Unione Europea presente nel “Manifesto di Ventotene”. Un testo universalmente noto, ma equivocato e non compreso, e proprio per questo duramente contestato, dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e da altri membri dell’attuale maggioranza di governo in Italia. Un’analisi rigorosa del testo avrebbe richiesto, da parte dei critici o dei detrattori, la valutazione di tre aspetti fondamentali puntualmente trascurati.
Una importanza cruciale ha in primo luogo la data in cui il Manifesto viene scritto: siamo nel 1941, in un’Italia e un’Europa letteralmente devastate dalla guerra e ancora sottomesse al dominio nazi-fascista. In secondo luogo il titolo del documento: “Per un’Europa libera e unita”. Si tratta dunque di un manifesto fortemente democratico e libertario, pur risentendo dei conflitti ideologici dell’epoca. E infine, in terzo luogo, la formazione e la storia politico-intellettuale dei tre autori del Manifesto: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni. Si tratta di personalità che godevano, già allora, di una notevole stima presso importanti economisti occidentali e diversi politici statunitensi. La loro proposta non ha nulla di “sovranista”: non è quella di un’“Europa delle nazioni”, ma puntava al contrario alla costruzione di una politica federalista europea di respiro universalista. Desta sorpresa che la presidente Meloni non abbia notato una serie di passaggi significativi: nell’ottobre del 1941 Colorni (che aveva anche una solida formazione filosofica) viene trasferito da Ventotene a Melfi grazie al diretto intervento di Giovanni Gentile; l’anno dopo elabora con Ludovico Geymonat il progetto di una rivista di metodologia scientifica; il 27-28 agosto 1943 dà vita a Milano al Movimento Federalista Europeo con Spinelli, Rossi, Ursula Hirschmann, Manlio Rossi-Doria e Vittorio Foa; infine, il 28 maggio del 1944 a Roma (pochi giorni prima della liberazione della Capitale) viene gravemente ferito dai colpi sparatigli dai militi fascisti della banda Koch e due giorni dopo muore in ospedale a soli 35 anni.
La dura requisitoria della nostra presidente del Consiglio contro il Manifesto di Ventotene ha sortito così il singolare risultato di trasformare un gruppo di intellettuali socialdemocratici (alcuni dei quali, come nel caso di Colorni, stimati dallo stesso Gentile) in una pattuglia di pericolosi bolscevichi. Il progetto di un’Europa libera e unita proposta dal Manifesto di Ventotene nasceva dalla lucida e tragica consapevolezza che, nel corso della sua lunga storia, l’Europa si è sempre caratterizzata come il continente delle guerre: dalle guerre tra nazioni nell’età moderna alle due guerre mondiali del XX secolo. E tuttavia lo scenario del nostro presente è radicalmente cambiato dopo il venir meno della speranza nella globalizzazione come passaggio da un mondo conflittuale a un mondo concorrenziale. La geopolitica del mondo non ha più come protagonisti i tradizionali Stati-nazione, ma Stati-continente come Stati Uniti, Cina, India, Russia, mentre stanno emergendo sulla scena altri protagonisti come i Brics. Ci troviamo così di fronte non a un conflitto tra Oriente e Occidente, ma a un campo di tensione tra una pluralità di “Orienti” e “Occidenti”. Pensare che l’Europa possa giocare il ruolo di Stato-continente in grado di competere con una politica di riarmo non è flebile illusione, ma pura follia. Il solo ruolo che può avere l’Europa in questa fase è riscoprire la potenza e la capacità connettiva del suo straordinario retroterra simbolico, radicato in una storia culturale millenaria capace di incidere sulle forme di vita di altri contesti.
Un progetto politico non di dominazione, dunque, ma di valorizzazione delle alterità culturali. Ma cerchiamo intanto di comprendere questa nuova mappa del mondo, partendo da un grande testo di Shakespeare sul potere. Give me the map there, «Dammi quella mappa», ordina Re Lear nella scena di apertura della tragedia shakespeariana. Ma, intanto, la mappa del potere è cambiata nella nuova struttura del mondo e non c’è nessun Sovrano, nessuna indiscussa potenza in grado di disporne la spartizione. Lo vediamo in modo eclatante con il ritorno della guerra nel cuore del continente europeo.
Per comprenderne le ragioni non vi è che una strada: prendere atto dell’inservibilità delle vecchie mappe dello Stato, dell’economia e della società, costruendo nuove mappe in grado di orientarci nella logica apparentemente indecifrabile che presiede al gioco delle alleanze e dei conflitti sconvolgendo le tradizionali gerarchie di influenza tra i vari attori della scena planetaria: élites politiche, poteri finanziari, movimenti. La «compressione spazio-temporale» tra culture profondamente diverse di tutti i continenti ha scompaginato i rapporti tra Oriente e Occidente, mettendo in moto un processo ambivalente di appropriazione economico-tecnologica e reazione identitaria che, in civiltà dalla storia millenaria come la Cina, l’India e la Russia, ha dato luogo a intrecci tra mercato capitalistico e potere politico radicalmente diversi dalla forma storica delle società occidentali. Si è venuto così delineando il fenomeno di Stati-continente che declinano il “capitalismo” in specifiche forme “geoculturali”.
Il dominio del capitale globale non dà luogo a un'unica forma di “Capitalismo” (termine del resto assente dal lessico di Marx e “sdoganato” scientificamente solo a partire da Werner Sombart e Max Weber), ma piuttosto a una pluralità di “capitalismi” radicati in ambienti etico-culturali fortemente differenziati rispetto all’Europa e al Nordamerica. Marx ha avuto, dunque, insieme ragione e torto: ragione, per aver previsto la dinamica espansiva del capitale globale; torto, per aver ritenuto che quella espansione avrebbe automaticamente comportato un’universale omologazione del mondo. Accade così che la mappa del mondo attuale sia sempre più segnata dalla potenza di “capitalismi politici” rappresentati non più da Stati-nazione ma da Stati-continente pronti a competere con l’Occidente e, nel caso della Cina, a fron-teggiare gli Stati Uniti come potenza egemone del mondo globale. Siamo, a questo punto, in presenza di un paradosso. Alla crescita esponenziale della sovranità in Paesi come Cina, Russia e India fa riscontro in Europa una progressiva dispersione della sovranità: un fenomeno dovuto al carattere di «costellazione postnazionale» (J. Habermas) della Ue e destinato ad alimentare le spinte populiste e sovraniste.
Difficile dire adesso se e fino a che punto la dispersione della sovranità possa essere un fattore di debolezza o, paradossalmente, un fattore di forza rispetto all’autoritarismo centripeto e sovrano di Paesi come la Russia e la Cina. In ogni caso, a chi parla senza cognizione di causa di fine della globalizzazione, occorre ricordare che la guerra non è che l’altra faccia di un mondo globale ormai multipolare: articolato non più in Stati-nazione, come pensano i patetici sovranisti europei, ma in Stati-continente paternalistico-autoritari. La sola speranza è che spingano l’Occidente a praticare la democrazia e i diritti umani in modo meno ipocrita e suprematista di quanto non abbia fatto finora. Una cosa, tuttavia, appare certa: solo il passaggio a un’Europa politica può dischiudere la prospettiva di un’alternativa democratica, di un tertium, tra l’anarchia neoliberista e le tentazioni egemoniche e totalitarie. Un tertium, non “terza via”. Poiché di terze vie (di destra o di sinistra) sono lastricati i cimiteri europei del XX secolo.
Con questo articolo Giacomo Marramao inizia la sua collaborazione con L’Espresso
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