Mondo
13 agosto, 2025A Gaza il genocidio ha rubato l’infanzia a una generazione intera. Che ignora concetti come casa, scuola, gioco. Poi ci sono morti, feriti, orfani. E chi ha subìto incancellabili traumi psicologici
Esiste un confine al mondo, unico nel suo genere. Una volta attraversato, chiude la porta dietro a sé con grandi lucchetti, impossibili da riaprire. Sono lucchetti senza chiave, senza serrature. Quel confine è una linea tangibile tra l’infanzia e l’età adulta. Oltrepassato, nessuno può tornare a essere bambino. Non è l’età che avanza a spingerci verso quella linea, ma la forza emotiva e drammatica che scandisce il tempo della nostra vita. I bambini e le bambine di Gaza sono oltre. Le porte dietro a loro sono ormai chiuse. La brutalità del genocidio in corso li ha spinti con forza a diventare adulti prima del tempo. Pensano da adulti, hanno preoccupazioni da adulti, vivono da adulti. Quando riesco a contattare il giornalista Husam Al Sayegh, che conosce membri dell’Unicef di Gaza, mi invia due piccole interviste fatte a bambini. Come a dirmi: «Loro stessi sono più bravi a farti capire cos’è per loro l’infanzia».
Il primo video che mi giunge è di Zain, un bambino con gli occhi grandi, grandi, del colore del mare. Quegli occhi di una bellezza superba sono piantati in un viso affetto da dermatite. «Sono le mosche, le zanzare che vivono con noi nelle tende», racconta lui intimidito. Zain dice che l’unica cosa che vorrebbe è del cibo. Un milione e centomila bambini nella Striscia: vivono oggi una carestia di fame durissima; 93 sono stati uccisi dalla fame; 140 mila neonati sono privati anche del latte.
In un elenco che a me sembra infinito, Zain ricompone zona dopo zona i luoghi in cui, con la famiglia, è stato deportato. Quando gli viene chiesto: «Che cosa fai durante il giorno?», racconta che dopo essersi alzato, lavato il viso, va a scuola. Rimango interdetta di fronte a questa parola. So che il genocidio è fatto di diverse sfumature e che una tra le tante è lo scolasticidio. Tutte le scuole, tutte le università di Gaza rase al suolo. Con l’intento ben preciso di recidere la voglia di libertà che i libri e lo studio riescono a far nascere dentro di noi. Chiedo a Husam di darmi una spiegazione. Mi dice che Zain non è mai andato a scuola. Nella Striscia un nuovo problema sta dilagando tra i bambini: l’analfabetismo; 658 mila bambini e ragazzi sono privati del diritto all’istruzione. Moltissimi hanno dimenticato cosa siano la lettura, la scrittura. Chi all’inizio del genocidio era in età prescolare, a scuola non ci è mai andato. Zain, per esempio, una scuola vera fatta di banchi, lavagne, compagni e professori non l’ha mai vista. Ha sempre visto una tenda strappata in cui un volontario per mezz’ora, un’oretta al giorno prova a insegnare qualcosa ai bambini. Nella sua testa il termine «scuola» si ricollega a quest’immagine.
Non riesco a capire se è una benedizione o una disgrazia non sapere cosa significano alcune parole e riempirle di significati sbagliati. Non capisco se è un bene non avere termini di paragone. Per un bambino che è nato durante il genocidio «casa» cosa è? Una tenda che si muove al vento e che si squaglia al sole? Pranzo è una zuppa di lenticchie riciclata da giorni? Amore è sapere che tuo padre è andato a prendere un sacco di farina e che forse non tornerà? «E dopo la scuola cosa fai?», gli chiede Husam. «Vado a raccogliere la legna», risponde Zain. Nel video riesco a vedere le case distrutte oltre la tenda dove abita Zain. Dentro quelle case i bambini entrano e prendono la legna che trovano, dagli armadi ormai andati, dalle vite passate, per farne del carbone col quale riuscire a cucinare quell’unica zuppa di lenticchie, quella manciata di erba. Lo fanno tutti i bambini. Se ne vedono dovunque, mi dice il giornalista. A raccogliere carta, legna, nelle case, in giro per le strade. Dovunque si vedono bambini che trasportano acqua, 20 litri di acqua sulle loro spalle per chilometri e chilometri. «Di notte dormi?». «No, per via dei bombardamenti. E non ho un letto, vorrei un letto». Ecco, la parola «letto» lui sapeva cosa significasse e quella morbidezza, dopo due anni di genocidio, non l’ha ancora dimenticata. Husam mi dice anche che Zain prima di fare il video l’ha supplicato di non mostrare la parte inferiore del suo corpo. «Durante la notte – ha rivelato – un topo mi ha rosicchiato il piede».
Il giorno dopo mi giunge un altro video. È di una bambina che non ha avuto tempo di pettinarsi i capelli, è circondata da sorelle più piccole. Non ha più il padre, è orfana. Lei non nomina la scuola, è più grande di Zain e i volontari non sono riusciti a ingannarla con un’illusione. Dice che vorrebbe mangiare, «anche solo l’ala di un pollo». Racconta che ogni giorno fa diversi chilometri per andare a prendere l’acqua. Husam continua a chiederle cosa vorrebbe da questa vita. E lei sembra essersi dimenticata cosa siano i sogni. Chiede solo del cibo. Husam insiste e allora, forse, dentro ai suoi occhi, agli occhi di un adulto, si rivede bambina e si ricorda che i bambini in genere chiedono e vogliono dei giochi. «Vorrei una bambola», dice senza nessun trasporto, nessuna passione.
Per un attimo riesco a capire cosa voglia dire infanzia. Infanzia significa sentire dentro di te il fuoco della vita, sentire una passione, una contentezza per ogni cosa salirti dallo stomaco ed esploderti negli occhi sognanti. I bambini di Gaza sono così lontani da quel fuoco. Hanno toccato quello dell’inferno. Abbiamo visto bambini camminare dentro le fiamme per salvarsi dalla morte, abbiamo sentito Hind gridare di essere salvata dentro una macchina in cui la circondavano i cadaveri di sei parenti, abbiamo visto bambini piangere l’uccisione di tutti i membri della loro famiglia. «Il luogo più pericoloso al mondo per un bambino», così è stata definita la Striscia in un rapporto del Washington Post. Oltre 20 mila bambini uccisi in circa due anni di genocidio. «Un’intera classe viene uccisa ogni giorno da quasi due anni», secondo le parole della direttrice esecutiva dell’Unicef, Catherine Russell. E riesco a parlare anche con Micaela Pasini, responsabile della programmazione Unicef di protezione dell’infanzia. Da più di quindici anni si occupa di questo e da quattro lavora in Cisgiordania e a Gaza. Mi racconta che durante il genocidio persino il loro ufficio è stato spostato. Da Gaza City a Deir al Balah, per poi tornare di nuovo a Gaza City. «Quello a Deir al Balah l’abbiamo tenuto, per cui adesso ne abbiamo due, la nostra missione è cresciuta». «Che interventi attuate in questa situazione così drammatica?», le chiedo. Micaela mi spiega che tutti i bambini di Gaza, nessuno escluso, hanno bisogno di un supporto psicosociale. Ci tiene a precisare che questo bisogno c’era anche prima del genocidio in corso. Perché la situazione nella Striscia non era facile e già molti bambini erano traumatizzati dalle varie escalation e aggiunge: «Senza un cessate il fuoco è difficile riprendersi dal punto di vista psicosociale perché il rischio di essere ri-traumatizzati continua».
Poi, mi spiega, l’intervento più importante in questa crisi umanitaria è l’identificazione e reintegrazione di minori non accompagnati o separati dai loro caregiver. Vengono tracciate le loro famiglie e il bambino viene reintegrato. Micaela mi racconta che la Striscia è un contesto nel quale i legami familiari sono estremamente forti. Per cui le famiglie allargate si prendono cura dei bambini soli in un modo unico. Anche quando c’era difficoltà di movimento all’interno della Striscia sono state attuate molte riunificazioni. Ad accogliere i bambini soli sono anche molte partnership locali perché i network comunitari non sono più sufficienti. E ancora, ci sono i programmi di supporto a casi singoli. Ci sono bambini che hanno situazioni molto complesse, racconta Micaela, per cui gli assistenti sociali si occupano di casi specifici.
«Pensi che la salute psicologica dei bambini di Gaza sia recuperabile?», chiedo. Micaela fa un sospiro. «Si tratta di una grossa scommessa: abbiamo bisogno di fondi e del cessate il fuoco», dice. «Molti dei nostri operatori sono anch’essi provati e traumatizzati. Abbiamo programmi per il supporto degli operatori da remoto, facciamo training a cascata, ma non basta». Spiega che operare nelle tendopoli non è semplice, che già prima del genocidio lo spazio per l’espressività era ridotto a causa della densità della popolazione e che ora, ovviamente, è tutto peggiorato. Ribadisce che senza un cessate il fuoco provare a prendere in mano la situazione è difficile, i traumi continuano ad aumentare. «Tutti i luoghi sicuri della vita dei bambini sono stati smantellati».
Le sue parole mi riportano alla mente una frase usata da Husam: «A questi bambini è stata strappata l’anima dell’infanzia». Ruh al tufula. Esiste un’anima per ogni cosa, infatti, e l’anima dell’infanzia di questi bambini è stata smantellata, assieme a tutti i loro luoghi sicuri. «Molti bambini, che hanno dieci, dodici anni, hanno la testa piena di capelli bianchi, molti hanno gobbe che non avevo mai visto, in giro ci sono insetti che non avevo mai visto, malattie nuove, la malnutrizione in quest’età così importante per la crescita sta facendo crescere bambini deboli, la generazione che verrà ne risentirà per sempre». Le parole che utilizza Husam sono difficili da digerire. Eppure, lui mi assicura, «non riescono a riportare quanto sia dura la realtà dei bambini nella Striscia». E mi sembra di capire cosa intende, perché ho visto il vuoto dentro gli occhi dei bambini che ha intervistato. E il vuoto dentro gli occhi di un bambino è il vuoto dentro l’umanità del mondo.

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