Con il suo attivismo sta diventando uno dei protagonisti dell'alleanza occidentale. Ma non deve esagerare

La politica estera turca sta chiaramente cambiando marcia. Per rispondere ai rapidi sviluppi in Medio Oriente, Ankara intende svolgere un ruolo significativo nel futuro corso degli eventi. Sta alzando la posta con Israele che si rifiuta di chiedere scusa per la morte di otto cittadini turchi durante un'incursione compiuta l'anno scorso contro una flottiglia che portava aiuti umanitari a Gaza.

Se in questi ultimi anni ha cercato di svolgere un ruolo di potenza regionale basato essenzialmente sulla capacità di persuasione, oggi il suo atteggiamento sprezzante rivela al contrario una tendenza all'uso della forza militare. Ultimamente, ha imposto sanzioni contro Israele e ha contestato la sua posizione sulla Palestina. Ha interrotto inoltre il dialogo politico con la Siria e sta preparando misure punitive nei suoi confronti.
Nel Mediterraneo orientale, dove si presume che esistano grandi riserve di petrolio e di gas, ha assunto una posizione intransigente, minacciando di bloccare le esplorazioni di giacimenti di queste materie prime avviate da Cipro all'interno della propria zona economica esclusiva. Mai riconosciuta da Ankara, la repubblica greco-cipriota, ha firmato accordi di compartecipazione con Israele per i sondaggi in queste acque affidandoli alla compagnia americana Noble.

I rapporti con l'Iran appaiono deteriorati in seguito al dispiegamento di un sistema radar sul territorio turco e alla presunta assistenza fornita da Teheran al Pkk. I due vicini di casa hanno anche assunto posizioni opposte sul conflitto fra il regime baathista e i suoi avversari in Siria. Ankara sostiene con forza l'opposizione siriana e permette e incoraggia la sua organizzazione entro i propri confini.
In seguito alle rivolte arabe, l'influenza crescente esercitata dalla Turchia è stata vista di buon occhio da molti osservatori occidentali convinti che Ankara potrebbe svolgere un ruolo costruttivo nella transizione di paesi come l'Egitto e la Tunisia. E si prevede che anche in Siria, divisa dalla Turchia da un confine lungo 875 chilometri, quest'ultima possa svolgere una funzione stabilizzante nella fase di transizione, probabilmente molto difficile, successiva al tracollo del regime dispotico di Assad.

Le spettacolari iniziative della politica estera di Ankara, in questi ultimi mesi, hanno alimentato in effetti queste aspettative. Il primo ministro Erdogan si è recato in Egitto, Tunisia e Libia per ribadire di persona il suo sostegno alle rivolte arabe. Ovunque è stato accolto con entusiasmo dalle folle, infastidendo probabilmente alcuni membri delle élites, e ha affrontato apertamente gli islamisti difendendo strenuamente i principi del laicismo.
Poi, nel corso della sua visita negli Stati Uniti durata un'intera settimana, ha incontrato il presidente Obama per quasi un'ora e mezza e ha continuato a denunciare Israele, ha inasprito il suo atteggiamento verso la Siria e ha sostenuto senza riserve la proclamazione di uno Stato palestinese, auspicando un riassetto delle Nazioni Unite che dia più voce alle potenze emergenti.

Nonostante la sua retorica bellicosa sugli obiettivi della diplomazia occidentale nella regione e la sua posizione intransigente nei confronti di Israele, la Turchia ha accettato, però, il dispiegamento di un sistema radar per lo scudo missilistico della Nato sul proprio territorio.
Molti osservatori hanno sostenuto che le rivolte arabe hanno ormai vanificato la pretesa del partito di Erdogan di evitare qualunque problema con i paesi vicini. E hanno sottolineato le incongruenze delle posizioni iniziali e finali del governo di Ankara sulla Libia e sulla Siria. Ma la sua posizione di fronte agli sviluppi politici in questi due paesi dimostra invece la capacità della politica estera turca di adattarsi alle mutevoli realtà della regione.
In effetti, la nuova situazione vede Ankara sempre più strettamente allineata con Washington e propensa a prendere le distanze da Teheran. L'imminente ritiro delle truppe americane dall'Iraq e lo sviluppo degli eventi in Siria metteranno ulteriormente in evidenza questa dinamica triangolare.

In definitiva la Turchia vuole essere un protagonista importante dell'alleanza occidentale, soprattutto riguardo alla formulazione e all'attuazione delle politiche per il Medio Oriente. Nello stesso tempo, Ankara pretende di partecipare alla riorganizzazione degli assetti istituzionali del sistema internazionale insieme a potenze emergenti come il Brasile e il Sud Africa, visitato anch'esso da Erdogan.
Ci si può ancora meravigliare che cerchi di fare il passo più lungo della gamba, ma non vi è alcun dubbio che la duttilità politica del suo governo merita un'attenzione maggiore di quella che molti europei le riservano. La trappola per la Turchia potrebbe scattare se oltrepassasse quella linea invisibile che corre tra la sicurezza di sé e l'arroganza e spingesse inutilmente molti altri attori a coalizzarsi per fare da contrappeso. Come disse Talleyrand molto tempo fa: "Et surtout pas trop de zèle ".
traduzione di Mario Baccianini