I giornali devono reggere la concorrenza, specie in un periodo di crisi. Ma c'è il rischio che la caccia alla notizia facile, 'sensazionale', oscuri i temi civili e le battaglie sociali del nostro tempo (versione integrale)

Troppe verità non fanno notizia

All'epoca del rapimento Moro molti della mia generazione non erano nati, altri stavano emettendo i primi vagiti. Eppure non è difficile immaginare quale fosse il clima nel nostro Paese in quei terribili giorni. Non solo non è difficile, ma è anche un obbligo fare i conti con ciò che il rapimento e l'omicidio Moro hanno rappresentato per l'Italia. Uno spartiacque. In politica, ma non solo. Il giornalismo, gli intellettuali e la società civile erano divisi su quale fosse la posizione da prendere, quella più giusta eticamente e secondo la Ragion di Stato, la decisione che non avrebbe ipotecato il futuro dell'Italia che in quel frangente appariva come la più sventurata delle nazioni.

UNO SPUNTO DI RIFLESSIONE , che però non si limita a questo, me lo ha fornito nei mesi scorsi un libro uscito per i tipi di Einaudi a firma di due giovani giornalisti, Mauro Favale e Tommaso De Lorenzis, "L'aspra stagione". Fine anni Settanta, un giovane giornalista e la fondazione di un nuovo quotidiano. Il giornalista è Carlo Rivolta e sarà tra i primi collaboratori nella neonata "Repubblica": sarà il collegamento tra i movimenti studenteschi - e non solo questo - e la redazione di quello che in pochissimi anni sarebbe diventato uno degli strumenti di informazione più autorevoli del Paese. Questo è solo lo spunto iniziale della mia riflessione, che vuole arrivare ad altro. Un ampio capitolo del libro è dedicato al rapimento Moro e a una questione fondamentale che, all'esito della tragedia, viene in genere relegato a un piano secondario: quale sia l'atteggiamento che i media debbano avere nei confronti delle richieste, dei bollettini di rivendicazione di gruppi eversivi che utilizzano metodi violenti. Quanto i mezzi di informazione abbiano contribuito a rafforzare, nel caso in questione, le richieste e le posizioni delle Brigate Rosse, rendendo le loro istanze note.

Il 21 marzo 1978 Eugenio Montale pubblica un editoriale sul "Corriere della Sera". Uno scritto lucido, pieno di passione giornalistica e di dubbi. «Eravamo, e siamo, divisi tra due obblighi di coscienza», scrive, «da una parte quello di negarci ad ogni manipolazione della verità, di non nascondere ai lettori alcuna notizia, di non imboccare mai la strada inclinata e maledetta della censura; dall'altra», continua, «quello di non collaborare in nessun modo, sia pure inconsapevolmente, a un disegno ribelle che vuole devastare l'equilibrio dell'opinione pubblica».

QUESTE LE PREMESSE. E poi: «Quali sono le armi dei terroristi? Le Nagant, le Tokarev, le Beretta, e la propaganda, e quel terribile amplificatore della propaganda che talvolta forse rischiamo di essere tutti noi, giornali, televisione, radio. Possiamo disarmare anche della propaganda i terroristi, senza rinunciare al nostro ruolo di giornali - e di giornalisti - liberi? È una difficile domanda». Montale finisce col dire chiaramente che i media sono stati gli amplificatori dei messaggi delle Br, che rendendo note per intero le loro rivendicazioni non hanno fatto da filtro, ruolo difficile, ma che forse sarebbe stato loro dovere assumersi. Soluzioni per il futuro: non farsi cassa di risonanza, perché «la stampa è indubbiamente un potere, anche micidiale».

Spunto di riflessione, punto di partenza, possibilità di poterci dare una sorta di codice etico troppo difficile ora, dove in ballo non c'è più soltanto, o soprattutto, la volontà di non voler fare censura, di voler restituire un'informazione completa, ma una concorrenza incredibile, spietata. Oggi più di ieri la notizia sensazionale è utile, anzi necessaria, per poter vendere copie, più copie… talvolta per non perderne. Per reggere la concorrenza dei media che trovano spazio in Internet, più aggiornati, più agili e con oneri economici minori. Ed ecco che le proteste pacifiche, dalla Rivoluzione dei Gelsomini a Occupy Wall Street, dalla "battitura della speranza" che ha avuto luogo in decine di carceri italiane quest'estate e ha coinvolto centinaia, migliaia di detenuti, dai loro scioperi della fame per denunciare le condizioni in cui sono costretti a scontare le loro detenzioni: tutte iniziative non violente di massa che incredibilmente non trovano spazio sui media nazionali. Dimentichi della lezione di Montale, propagandiamo e premiamo con il massimo della visibilità comunicati, parole d'ordine e violenza e mortifichiamo, censuriamo, ignorandole le iniziative che non fanno morti e feriti.

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