E invece solo la Ue può dare ad Ankara le solide istituzioni di cui ha bisogno per modernizzarsi

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La storia ci presenta molteplici esempi di profonde crisi economiche civili con gravi ripercussioni sociali e politiche. L'attuale crisi economica in Occidente assume proprio questo rilievo, ma le sue conseguenze devono ancora palesarsi del tutto. Il fatto è che le crisi economiche sono di per sé anche manifestazione di fallimenti politici o di scelte politiche particolari. Le scelte adottate per mandare avanti un'economia o affrontare una crisi economica non sono soltanto tecnocratiche: sono anche politiche. Questo spiega per quale motivo la crisi europea vada ben oltre l'irrequietudine della zona euro e il deprimente quadro economico che caratterizza soprattutto i paesi membri situati alla sua periferia. Come molti hanno già sostenuto in precedenza, la débâcle economica che sta rapidamente intaccando i principi cardine dell'integrazione europea in fondo in fondo è una crisi politica.
La crisi politica riflette a sua volta un'ineguale distribuzione del capitale politico nell'epoca della globalizzazione, e ciò ricalca la disomogenea distribuzione dell'influenza che gli attori economici hanno in funzione della competizione globale. Da quando è scoppiata la crisi nel 2007-2008, i mercati e il "demos" sono su piani contrapposti.

C'è ovviamente l'impatto di problemi irrisolti che si sono sommati tra loro e che affliggono l'Unione e molti dei paesi che ne fanno parte: tali problemi sono accentuati dalle pressioni demografiche, intergenerazionali e "di competitività globale" che paralizzano il sistema europeo. Poco alla volta, essi finiscono col compromettere le strutture politiche e l'insieme di valori messi insieme nel corso degli ultimi sessant'anni.
Queste problematiche, per altro, assillano anche le istituzioni esistenti. Le élite mostratesi troppo compiacenti e indifferenti ai segnali che le loro opinioni pubbliche stavano mandando si sono rivelate non all'altezza del compito di gestire - figuriamoci superare - le sfide che si sono poste loro di fronte.

Come osserva Ivan Krastev in un saggio interessante pubblicato su "American Interest", "l'Unione europea, così come la conoscevamo uno o due anni fa, è scomparsa. Le élite hanno perso la bussola proprio mentre le loro opinioni pubbliche esaurivano la pazienza... L'Ue non può essere salvata dai suoi cittadini perché non esiste un demos europeo, né del resto potrà più sopravvivere a lungo come un progetto delle élite, perché la crisi ha violentemente accelerato il processo di smantellamento delle democrazie europee guidate esse stesse da élite".
Da qualche tempo, ormai, la Turchia si è praticamente dissociata dall'Ue. La risolutezza di un demos spaventato e arrabbiato non lascia presagire nulla di buono per le aspirazioni di entrare nell'Ue. L'opinione pubblica turca si sente rinascere per il fatto di non far parte di quello scompiglio colossale nel quale si ritrova l'Ue. Eppure, gli sviluppi in Europa sono decisivi per la vitalità della sua economia.

Paiono giunti al termine i piaceri dello "schadenfreude". Se non altro, la crisi ha fatto recepire il messaggio che l'economia turca per qualche tempo a venire avrà bisogno dell'Europa e dei suoi mercati. Oltretutto, alla leadership turca è ormai sempre più chiaro che i rapporti con l'Europa offrono tuttora alla Turchia una compagine istituzionale apprezzata dagli investitori stranieri.

Ci sono altre motivazioni che inducono l'opinione pubblica a palesare ancora interesse per un mantenimento dei rapporti con l'Ue. In Turchia la monopolizzazione e la concentrazione del potere proseguono a ritmo sostenuto, mentre l'apparato giudiziario viola pressoché di continuo il senso di giustizia del singolo. Le libertà di espressione e di stampa sono fortemente limitate e l'intimidazione nei confronti di chi critica il governo si va intensificando. Nel suo terzo mandato, avvelenato dal livello di potere ormai raggiunto, l'Akp al governo afferma la propria ideologia conservatrice di stampo religioso in tutti gli aspetti della vita sociale e culturale. Per tutto ciò l'Ue continua a rappresentare la speranza migliore per mantenere in essere il processo di democratizzazione in Turchia.

È abbastanza evidente che Ue e Turchia devono riaprire i canali di dialogo e collaborare specialmente in relazione ai paesi e alle regioni coinvolte dal risveglio arabo. Occorre un grande gesto per far ripartire il round dei negoziati e avviare un dialogo più impegnato. L'elezione di François Hollande alla presidenza in Francia di fatto potrebbe costituire un'apertura efficace, qualora durante il suo mandato la Francia ritirasse il veto che ha opposto alla negoziazione di cinque punti.
In conclusione, non si deve permettere che tra le ripercussioni dell'attuale crisi possa esserci il venire meno del rapporto tra Ue e Turchia. Anzi, proprio adesso che l'Ue è in piena crisi e la Turchia è demoralizzata dalla portata delle sfide alle quali deve far fronte nei paesi con i quali confina e nel Mediterraneo in fiamme, tale rapporto e la sinergia che può nascere da esso acquisiscono maggiore importanza. Ora più che mai.
traduzione di Anna Bissanti