Il political cartoonist Patrick Chappatte racconta in modo incredibile le bande e la corruzione in Guatemala. Dice che le immagini superano le barriere e l’umorismo è un buon modo per affrontare problemi seri. Ha ragione

Patrick Chappatte è un political cartoonist. È nato in Pakistan da madre libanese e padre svizzero e pubblica le sue strisce (talvolta vignette, altre veri e propri reportage) su quotidiani e settimanali di tutto il mondo. Mi è capitato di leggere le sue tavole sul Guatemala e le ho trovate interessantissime. Con pochi disegni ha raccontato più di quanto non sia spesso possibile fare in decine di pagine. La formazione e l’affiliazione dei giovani nelle gang, il lavoro titanico delle associazioni che si occupano di famiglia e infanzia, la corruzione dilagante, lo stato delle carceri, l’insicurezza della classe media, il controllo capillare del territorio da parte delle gang. La forza delle immagini unita alla possibilità che il fumetto ha di poter utilizzare l’ironia, crea paradossi che permettono a quanto ci viene raccontato di trovare continui ancoraggi con la nostra vita quotidiana, anche se siamo nati e cresciuti in Italia e stiamo leggendo di come imparano a uccidere i giovani guatemaltechi. “Quanto si dà a un ragazzino per uccidere?”. “5 o 10 euro”. “Gulp! Un osso di pollo mi è andato di traverso. Ecco il valore della vita umana”. Il disegno che accompagna questo dialogo raffigura il pasto che Chappatte stava consumando in quel momento: un meal completo di hamburger, patatine fritte e bibita serviti da Pollo Campero, immagine in tutto simile a quelle che avremo visto decine di volte per strada, pubblicizzare fast food. Sarebbe stato difficile poter raccontare attraverso un mezzo differente la stessa cosa con altrettanta leggerezza. Un pollo gigante, sorriso smagliante e braccia aperte, non è esattamente quanto ci aspetteremmo di vedere mentre leggiamo quanto vale la vita umana.

Chappatte racconta le difficoltà di sottrarre i ragazzi dalla strada, di sottrarli alle gang che spesso diventano l’unica entità cui poter appartenere. L’unica famiglia che ti difende e alla quale dovere tutto: obbedienza estrema e se occorre anche la vita. “Da una parte ci sono le famiglie disfunzionali, i rapporti sociali spezzati, la criminalità, dall’altra l’eccessiva repressione. La nostra società è malata”. Queste le parole di un’attivista dell’ong Interpeace. E genitori che lasciano uscire i propri figli la mattina senza sapere se la sera torneranno vivi. “La mattina abbraccio i miei figli fortissimo. Vorrei che restassero qui. Per poterli proteggere”. Esiste una soluzione? Domanda Chappatte. “Partire! …vivere all’estero”. È la risposta.

Una società devastata dove non si sa chi temere di più, se le gang o la polizia. Una società in cui è ancora viva la memoria della repressione avvenuta per mano delle forze dell’ordine tra il 2005 e i 2010 - “La polizia contro i giovani” -, è una società in cui tutto è sovvertito. A città del Guatemala il carcere è nelle mani della criminalità e di ex poliziotti. El Pavón è un carcere autogestito che tutto sembra tranne che un luogo di detenzione e, va da sé, di rieducazione.

Ma Chappatte è stato anche altrove, in paesi dove ci sono fortissime divisioni. In Libano, in Costa d’Avorio e in Kenya ha fatto un esperimento. Ha riunito fumettisti di diversi orientamenti politici e religiosi e li ha stimolati a lavorare in squadra. Questo partendo dal presupposto che spesso l’arte non è libera, ma si esprime sotto coercizione. Si è reso conto che la produzione artistica lontana dai condizionamenti, diventa qualcosa di estremamente utile e non divisiva. E il fumetto, per la sua immediatezza, è un mezzo pericoloso e prezioso allo stesso tempo, che non dovrebbe essere usato per fomentare odio ma per creare unione. Mai per stigmatizzare, ma per mostrare quanti punti di contatto ci siano pur nelle diversità politiche o religiose. Chappatte ritiene che il giornalismo a fumetti sia il futuro perché le immagini superano le barriere e l’umorismo è un buon modo per affrontare problemi seri. Dopo aver letto il suo reportage sul Guatemala credo di potergli dare ragione.
La guida di Chappatte in Guatemala prima del suo arrivo ha dovuto avvertire la gang per evitare problemi. Si chiama José. Ora si occupa dei ragazzi di strada, ma giovanissimo ha dovuto uccidere cinque persone per entrare a far parte della gang e una sesta per ottenere il nome di affiliato. Quella stessa sera torna a casa e dice alla madre: “Oggi niente di speciale”.

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