Il procuratore capo di Milano per anni si è battuto contro il potere gerarchico negli uffici della pubblica accusa. E ha scioperato contro la riforma Castelli. Ma oggi ha cambiato idea. Forse perché adesso è lui a comandare

È bastato l’annuncio di una lettera del presidente Napolitano al vicepresidente Vietti - che si è ben guardato dal leggerla ai colleghi dell’organo collegiale chiamato “consiglio” - perché il Csm archiviasse a tarallucci e vino il duro scontro alla Procura di Milano emerso dagli esposti del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il suo capo Edmondo Bruti Liberati. Con un risultato devastante: il capo e l’aggiunto che lo accusa di sottrargli fascicoli che gli spettano in base alle regole interne della stessa Procura continueranno a convivere in Procura a pochi metri di distanza. E le indagini su Expò continueranno a essere gestite per metà dal pool Antimafia e per metà dal pool Pubblica amministrazione, guidati dagli aggiunti Boccassini e Robledo, che non si parlano.

Ma, al di là degli effetti concreti della decisione pilatesca del Consiglio, anzi del Coniglio superiore, stupiscono gli schieramenti che l’hanno originata. Il solo consigliere a contestare l’idea che l’Ordinamento giudiziario Mastella del 2006 trasformi il procuratore capo in un “padre padrone”, sciolto da ogni controllo e persino dalle regole interne sulla competenza dei vari pool, è stato Antonio Racanelli, conservatore di Magistratura indipendente.

Invece i progressisti di Magistratura democratica, la corrente che ha sempre combattuto la “gerarchizzazione piramidale” delle Procure in favore del “potere diffuso” e “orizzontale” dei singoli pm come garanzia del principio costituzionale di indipendenza, si sono allineati. E dire che l’atto costitutivo di Md, datato 1964, già invocava «la ripartizione degli affari tra i vari magistrati secondo la materia e il valore», «con la connessa eliminazione dell’attuale assetto gerarchico-piramidale» e «la distribuzione dei magistrati su una linea orizzontale».

Il ribaltamento è tanto più clamoroso in quanto lo stesso Bruti Liberati è un leader storico di Md. Ecco cosa scriveva nel 1997, nel capitolo “Magistratura” della Storia d’Italia Einaudi: «La prima metà degli anni Settanta vede uno scontro durissimo nella magistratura, con i settori più conservatori che riassumono l’egemonia: di qui la ripresa di potere della struttura gerarchica interna... Le indagini sulle stragi vedono in opera tutti gli strumenti (dalle assegnazioni mirate dei casi all’interno delle procure e degli uffici giudicanti, alle avocazioni, ai conflitti di competenza, alle rimessioni) per bloccare ogni accertamento che arrivi alle sempre più evidenti deviazioni negli apparati dello Stato. Lo stesso per le indagini che investono punti sensibili della pubblica amministrazione, del potere politico ed economico (inquinamenti, fondi neri, frodi petrolifere). È in questi anni che si consolida il ruolo della procura di Roma “porto delle nebbie”».

Nel 2003 Berlusconi tentò di ripristinare il modello gerarchico-piramidale sopravvissuto fino agli anni Settanta. E Bruti - presidente dell’Anm - tuonò contro l’attentato all’«indipendenza esterna e interna dei magistrati, perché solo una «organizzazione della funzione giudiziaria come “potere diffuso”, e non gerarchizzato è garanzia essenziale», mentre la «gerarchizzazione delle procure comporta il rischio di deresponsabilizzare i singoli». Nel 2004, in un incontro con la Margherita, Bruti confermò il no alla “gerarchizzazione delle Procure e “l’opportunità di mantenere i Procuratori aggiunti”. Ma il Caimano tirò dritto con la controriforma Castelli (poi approvata nel 2005 e ritoccata da Mastella nel 2006). E il 25 maggio l’Anm scioperò. «La riforma - spiegò Bruti - non migliora la qualità della giustizia e mette a rischio l’indipendenza dei magistrati, erodendo le competenze del Csm e proponendo un modello verticistico». Il 24 novembre, nuovo sciopero e nuova denuncia di Bruti: «La riforma introduce una gerarchia interna molto forte nelle Procure, dove non c’è affatto bisogno di una gerarchizzazione rigida, ma solo di coordinamento». È quel che chiede oggi Robledo, imputando a Bruti il verticismo gerarchico che combatteva fino a dieci anni fa. Cos’è cambiato da allora a oggi? Nulla. A parte il fatto che, nel frattempo, Bruti è diventato procuratore capo di Milano.