Da dove iniziare. Forse da una foto. Una scrivania, un computer, una sedia. Fogli sparsi, qualche immagine attaccata alle pareti, come nel mio studio, come in ogni studio. Un calendario delle scadenze editoriali. Cose da ricordare. Una borsa a terra, con delle tavole, forse dei disegni. Magari dopo il lavoro c’era la palestra. Forse.
Una storia interrotta lo dice quel sangue che tinge tutto di rosso, un rosso talmente vivo che vuole ancora scorrere e che tarda a seccarsi, a spegnersi.
Niente più scadenze da tenere a mente. Niente disegni, nessuna palestra, ma solo la consapevolezza di essere stati, tutti, di nuovo, colpiti al cuore e in maniera talmente assurda che davvero risulta troppo difficile piangere i morti senza pensare a ciò che si poteva fare per evitare l’ennesima tragedia.
Capita poi che per capire ciò che succede a due passi da noi, sotto i nostri occhi, sia necessario andare lontano. Sia necessario osservare ciò che accade dove non c’è cemento, dove il sangue non tinge di rosso una scrivania, il pavimento di una redazione al centro di Parigi, ma si mischia al terriccio sembrando acqua. Ecco, questa è un’altra immagine che mi colpisce: da noi il sangue è rosso, denso, ha un odore acre e ci fa scendere in piazza. Ci costringe a scendere in piazza. Altrove, il sangue si mischia alla terra, diventando acqua. Diventando niente.
Sabato 10 gennaio, Boko Haram l’organizzazione terroristica jihadista con base in Nigeria imbottisce di esplosivo una bambina di 10 anni provocando 19 morti e 18 feriti al mercato di Maiduguri (a pagina 66). Destabilizzazione, crociate preelettorali, ricerca di consenso: a latitudini diverse identici scopi. E allora, se domenica 11 gennaio a Parigi la democrazia ha fatto la democrazia, se quei due milioni in marcia verso Place de la Nation significavano «noi non abbiamo paura», «noi non odieremo», «noi non diventeremo preda di facili populismi», allora io credo che sia necessario indagare le cause di queste stragi, capire perché avvengono, assumerci responsabilità individuali e collettive e comprendere che manifestare serve solo se poi tutto davvero cambia.
Guardare altrove per comprendere ciò che abbiamo sotto gli occhi: Boko Haram in Nigeria fa proselitismo denunciando i crimini delle forze dell’ordine e puntando il dito contro la corruzione politica, fa leva sulla povertà, sul diffusissimo malessere sociale, sulla disoccupazione. Ecco come si vincono nuovi adepti alla propria causa, mostrando cosa non va, accusando chi è al potere e prospettando una piazza pulita generalizzata. Mandare a casa tutti, metaforicamente e fisicamente. L’individuazione del nemico, l’intimidazione del nemico, l’isolamento del nemico, prima ancora che la sua eliminazione.
Ma davvero da noi le cose stanno diversamente? Davvero da noi la democrazia funziona come dovrebbe? Davvero le logiche non sono il “j’accuse” continuo? Anche domenica 11 gennaio, quando alla testa del corteo c’erano dei capi di Stato, che cosa assurda criticarne la presenza. Io posso non essere d’accordo con questa o quella riforma, ma devo necessariamente riconoscere un ruolo istituzionale al Presidente del Consiglio italiano che era a Parigi a rappresentare anche me. Allora affrontiamo la questione alle radici: se è tanto facile fare proselitismo, significa che il problema è culturale prima ancora che religioso o di integrazione. Significa che dobbiamo tutti assumerci le responsabilità che competono al nostro ruolo. Insegnanti, politici, medici, intellettuali, giornalisti: lavoriamo davvero per cercare pacificazione o siamo continuamente pronti a dichiarare guerra a chiunque la pensi diversamente da noi? A chiunque sia diverso da noi?
La prassi quotidiana è fatta di cinismo, di “innocua” delegittimazione. Ma esiste davvero una delegittimazione che sia innocua? O anche ciò che viene detto, fatto e scritto con leggerezza costruisce odio?
Opinioni
16 gennaio, 2015La strage di Parigi ?e quella di Boko Haram in Nigeria ?ci interrogano. ?Sulle nostre responsabilità collettive e individuali. E sul cinismo con cui ogni giorno guardiamo cosa accade a chi è diverso da noi
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